Il quarto cavaliere

’Ndrangheta nella Sibaritide, l’ascesa di Luigi Abbruzzese. Per i pentiti era già «boss a quindici anni»

È l’uomo che secondo la Dda guida attualmente la cosca dei nomadi di Cassano all’Ionio. Dagli atti dell’inchiesta che nel 2018 ha posto fine alla sua latitanza, emerge il profilo di un capo dall’inedita dimensione “sociale”

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di Marco Cribari
4 gennaio 2024
09:30
Luigi Abbruzzese il giorno dell’arresto a Cassano, nel 2018
Luigi Abbruzzese il giorno dell’arresto a Cassano, nel 2018

Gli investigatori si accorgono di una sua «predisposizione al comando» nel 2013, quando ha già 24 anni, ma se è vero ciò che raccontano i pentiti, dell’ascesa ‘ndranghetista di Luigi Abbruzzese si sono accorti pure loro con un certo ritardo. Non a caso, l’uomo sospettato di essere il nuovo capo del clan dei nomadi di Cassano all’Ionio è uno che avrebbe bruciato le tappe, tanto da affacciarsi sulla scena criminale che conta a soli quindici anni. Forse anche per questo si porta dietro quel soprannome che è tutto un programma: “Il piccolino”. Un profilo quasi completo dell’ancora presunto boss, oggi trentaquattrenne, affiora dagli atti dell’inchiesta “Athena”, giunta a conclusione di recente, che ingloba tutta la documentazione relativa alla sua latitanza e allo sforzo investigativo messo in campo per interromperla. Operazione riuscita il 18 agosto nel 2018 dopo tre anni di ricerche concentratesi in particolare nella città tedesca di Francoforte e poi a Cassano, località in cui il diretto interessato aveva fatto ritorno due mesi prima di essere arrestato. Da allora si trova in carcere per scontare vent’anni di reclusione, eredità di un processo - “Gentlemen” - che lo voleva sotto accusa per narcotraffico internazionale.   

Il narcos bambino

A quel tempo Abbruzzese ha già ventinove anni, ma ne aveva esattamente la metà quando Ernesto Foggetti, poi fuoriuscito del clan Bella-Bella, se lo ritrova a colloquio con il suo boss dell’epoca, Michele Bruni, intento a contrattare il prezzo dell’eroina che i cassanesi devono vendere ai cosentini. Correva l’anno 2004 e il pentito rammenta «la meraviglia suscitata in Bruni da quello che lui considerava solo un bambino, ma che nonostante ciò partecipava a pieno titolo alle discussioni». In quei giorni, l’eroina costa ai cassanesi 12-13 euro al grammo e loro pretendono di cederla a 18, così da assicurarsi un profitto di cinque euro a dose. L’affare va in porto e a quello ne seguiranno tanti altri.


Un predestinato

Il suo nome non salta fuori dal nulla, semmai è nome da predestinato. Il nonno Celestino alias “Asso di bastone” e il papà Francesco, nom de crime “Dentuzzo”, sono i precedenti capi della consorteria per come accertato in via giudiziaria.  È in questo solco, in ossequio a una tradizione tutta familiare, che s’inquadra il ruolo che la Dda gli assegna nello scacchiere complicato e turbolento della Sibaritide: due clan - il suo e quello dei Forastefano - fino a qualche anno fa in guerra tra loro e oggi uniti in nome degli affari. Una svolta resa possibile dal ricambio generazionale e dall’avvento di giovani boss, da una parte e dall’altra, scevri da pregiudizi etnici e rancori ancestrali. Uno di questi sarebbe proprio lui, il Piccolino. In molti lo ricordano nel 2007, ancora minorenne, prendere parte a diversi summit di mafia al seguito di suo padre che, evidentemente, in quei giorni prepara la successione. Secondo i collaboratori di giustizia, è proprio allora che riceve il segno del comando.

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Osso, Mastrosso, Carcagnosso e…

L’inchiesta che lo riguarda da vicino si chiama “Quarto cavaliere”, nome in codice ispirato da un’intercettazione. Poco prima di essere arrestato, infatti, Luigi dialoga con alcuni suoi familiari assillati da un pensiero: noleggiare un’auto senza spendere troppi soldi. Nessun problema per lui, che suggerisce di presentarsi nella concessionaria a nome suo. O meglio, declamando questa formula: «Padre nostro, quarto cavaliere». E garantisce che chi deve capire, capirà. I presenti, però, non afferrano il senso delle sue parole e gli chiedono spiegazioni. Lui racconta loro la storia di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i tre cavalieri oscuri. Gli investigatori trascrivono le sue parole e poi la buttano lì: il quarto cavaliere è lui. Una sua stretta congiunta, però, non sembra convintissima: «Ma quando devo pagare che gli dico? Che poi passa Carcagnosso…». E tutti giù a ridere.

Temuto, ma anche “amato”

Non è irriverenza. C’è una componente scanzonata che lo contraddistingue. Per certi versi, è qualcosa che segna pure una rottura col passato, in particolare con una percezione diffusa: quella di un clan dei nomadi spietato, feroce nel dirimere le controversie e capace di suscitare terrore nella gente comune. Con Luigi la musica sembra cambiare. Non è solo un capo temuto, il suo carisma criminale gli consente di andare oltre l’etnia e i vincoli di sangue. Incarna una dimensione sociale, sul modello camorristico. Un’intercettazione, successiva al suo arresto, conferma questi presentimenti. Due indagati ne parlano ed elogiano «il suo modo di fare», sostengono sia «ben visto dalla popolazione comune». Questo perché al suo cospetto si presentano bisognosi, persone alle prese con malattie, e lui «pure che è senza soldi, se tiene duecento euro se le toglie dalla tasca per darle a loro». 

La latitanza

Si ritiene che questo consenso gli sia tornato utile nel suo bimestre di invisibilità cassanese, di ritorno dalla Germania, periodo in cui avrebbe goduto di sostegno e protezione anche da parte di persone insospettabili. A dargli ospitalità, fra le altre, sarebbe stata un’anziana del posto. E tra un cambio di nascondiglio e l’altro, l’allora latitante trova anche il tempo per concedersi una settimana di vacanza in Puglia. È uno dei segnali per cui la Dda ritiene il suo gruppo collegato a un clan della Sacra Corona Unita. L’altro è un pranzo ferragostano organizzato da alcuni suoi familiari con diversi pregiudicati baresi tra gli invitati. Sul tema in questione, però, non si è andati ancora oltre la soglia del sospetto. Neanche di quello, invece, si può parlare con riferimento a un fatto di cronaca nera consumatosi sotto il suo “regno”: l’uccisione del vecchio padrino della Sibaritide, Leonardo Portoraro, che avviene proprio nel periodo in cui Luigi Abbruzzese torna dal suo lungo esilio tedesco. Gli investigatori registrano la concomitanza temporale che, però, rimane isolata.

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«Ora che non c’è lui…»

Ben altra cosa rispetto alla scia di sangue che funesterà la Sibaritide da Portoraro in poi e per il quinquennio successivo. Su quel fronte, uno spunto su tutti appare il più concreto: la carneficina, con una media di un morto ogni sei mesi, si consuma quando Luigi Abbruzzese è già dietro le sbarre. Una captazione, raccolta sempre nel 2018, subito dopo il suo arresto, sembra presagire in qualche modo l’imminenza della tempesta. «È tutto finito ora» afferma uno degli intercettati, dolendosi per l’uscita di scena dell’ex latitante. «Lo sai adesso che malavita che c’è?» gli fa eco l’interlocutore, paventando cambiamenti radicali ma non meglio precisati. E l’altro di rimando: «Adesso lo vede la gente (…) se stavano meglio ora o come iniziano a stare ora (…) che prima almeno, se succedeva qualcosa c’era lui...». Cosa sarebbe accaduto se ci fosse stato lui? O meglio: cosa non sarebbe successo? La soluzione alla sciarada criminale di Sibari e dintorni passa anche dalla risposta a questa domanda. Solo che una risposta, al momento, non c’è.   

Giornalista
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