La storia

Dai furti di auto agli affari con i broker globali della cocaina: così i rom di Cosenza hanno scalato la ‘ndrangheta a colpi di kalashnikov

Il primo boss Tonino “il biondo”. La diaspora tra il capoluogo e Cassano. La benedizione del Crimine di Cirò e le faide sanguinose nella Sibaritide. L’etnia un tempo discriminata dalle cosche storiche ha conquistato il potere in quasi mezzo secolo

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di Marco Cribari
5 febbraio 2024
06:15

I furti d’auto erano il loro pane quotidiano al pari di altri reati minori. Un recinto in cui sembravano confinati senza possibilità d’uscita. Acqua passata. Vent’anni sono stati sufficienti ai gangster di etnia rom per imporsi sulla scena criminale della provincia di Cosenza. Poco più del doppio, invece, è il tempo da loro impiegato per raggiungere livelli che nessuno avrebbe mai pronosticato e che li ha portati a trafficare persino con i broker internazionali della droga e delle armi. È il parziale epilogo di un gioco, crudele e pericoloso, che va avanti da quasi mezzo secolo. Una partita con il morto. Su un tavolo in cui le carte si mescolano in continuazione.    

Tonino “il biondo”, il primo boss

Un’ascesa per certi versi irresistibile quella dei clan cosiddetti nomadi – o «degli zingari» - di cui gli investigatori si sono accorti tardi, quando erano già in odore di grande slam. L’esistenza della loro associazione mafiosa è stata accertata in via giudiziaria solo nei primi anni Duemila, conseguenza dei processi “Lauro” e “Sybaris”. La genesi del gruppo delinquenziale, però, risale a molto tempo prima. Più precisamente alla fine degli anni Settanta, quando con Armando Bevacqua alias “Tonino il biondo” emerge la prima figura di riconosciuta di boss. Oltre a indiscutibili qualità criminali, a consegnargli lo scettro è anche lo status di figliastro del vecchio padrino di Cosenza, Luigi Palermo detto “U zorro”.


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La diaspora della criminalità nomade

All’uccisione di quest’ultimo, avvenuta a dicembre del 1977, coincide poco dopo la scomparsa dello stesso Tonino, ammazzato per mano dei suoi vecchi amici “italiani” che ne presagiscono il tradimento. Sono gli anni della guerra di mafia, a cui i nomadi partecipano attivamente con un cambio di fronte conseguente all’uccisione del loro leader.  Si schierano dalla parte del boss Franco Pino e proprio le dinamiche liquide di quel conflitto, li spingono a una decisione che cambierà per sempre il corso della storia. Una parte della comunità rom, infatti, abbandona l’insediamento originario della città capoluogo per stabilirsi nella Sibaritide, in particolare nella zona di Cassano allo Ionio.

Scalata alla ‘ndrangheta a colpi di kalashnikov

La mano successiva, a pace ristabilita, li vede rientrare nei ranghi, ai margini del business malavitoso. L’Onorata società li esclude proprio a causa della loro etnia, ma i tempi stanno per cambiare.  Nel decennio dei Novanta, trovano una dimensione quasi naturale nelle rapine ai blindati portavalori. Eseguono i colpi con perizia paramilitare, e scandiscono ogni loro prodezza con il crepitio dei kalashnikov. Quegli assalti a cui corrispondono spesso bottini milionari, diventano il piatto forte della casa. La raffica di mitra, il loro tratto distintivo. Da lì a poco, diventerà anche colonna sonora di ben altri crimini: sarà la firma apposta in esclusiva su parecchi omicidi.   

La benedizione di Cirò

La svolta per i cassanesi arriva grazie alla benevolenza mostrata nei loro confronti dal crimine di Cirò che li introduce nel mondo delle estorsioni e del traffico di armi e stupefacenti, ambiti fino a quel momento a loro inibiti. Il salto di qualità determina forti contrasti con le cosche tradizionali che dominavano il territorio in modo pressoché indisturbato. Fino a quel momento, con i Forastefano erano stati una cosa sola. Tutto cambia nel 1998, a seguito di uno scontro a fuoco con i carabinieri durante il quale rimane ucciso Maurizio Forastefano. La sua famiglia accusa i nomadi di aver fatto la soffiata ai militi e da allora in poi si scatena l’inferno.

Guerra di ‘ndrangheta nella Sibaritide

Nasce così la terribile faida che insanguinerà la costa jonica cosentina per il quinquennio successivo, con una scia infinita di lutti da una parte e dall’altra. Gli zingari pagano un prezzo carissimo con la perdita di due vertici come Eduardo Pepe e Fioravante Abbruzzese (2002), ma infliggono durissimi colpi ai rivali, prima che l’intervento della magistratura ponga fine alle ostilità. Nel frattempo, però, consolidano la loro posizione nelle gerarchie criminali. Stipulano un’alleanza con le ‘ndrine “italiane” di Castrovillari, Rossano e anche con quella di Corigliano dove ha sede la Locale di ‘ndrangheta. I tempi, però, sono cambiati per davvero. La capitale, ora, si è spostata a Cassano.     

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«Cusenza era in mano a nua»

Devono guardarsi le spalle anche in casa propria. A Cosenza, infatti, c’è un capo emergente come Francesco Bevilacqua, nom de crime “Franchino i Mafarda” che stringe patti e alleanze con i clan “italiani”. Si sono spartiti il mercato della droga e Bevilacqua ha ottenuto il monopolio nello smercio dell’eroina. «Era cambiata tutta a situazione, ormai Cusenza era in mano a nua» ricorderà in seguito l’ex capobastone divenuto collaboratore di giustizia. La concordia cosentina non è vista, però, di buon occhio dai “cugini” di Cassano. Quest’ultimi, infatti, meditano di far saltare il tavolo. E imporre la loro legge anche nella città dei Bruzi.

Cassano vs Cosenza

Il progetto è quello di assassinare i capi delle cosche “italiane” la sera di Natale, quando un po’ tutta l’organizzazione si dà convegno in un bar di via Popilia per lo scambio degli auguri. “Mafarda”, però, informa in anticipo gli alleati ed evita così quella catarsi purificatrice. Da quel momento in poi, sarà inviso agli occhi dei suoi consanguinei che penseranno solo a come spodestarlo dal trono cosentino. L’occasione si presenterà quanto prima. L’asse zingari-italiani in città si rivela, infatti, molto fragile. Bevilacqua viola gli accordi assunti in tema di droga e poi guida il commando che a novembre del 2000 uccide Aldo Benito Chiodo, pezzo grosso degli ex alleati. Isolato e ormai in fuga, sceglie la via del pentimento. Le carte stanno per rimescolarsi di nuovo.

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I due troni

Dopo di lui, la successione criminale nella città capoluogo si dispiega su un percorso accidentato. A figure carismatiche come Giovanni Abruzzese “U cinese” e Fioravante Abbruzzese “Banana” fa seguito l’interregno dell’italiano Maurizio Rango e di Franco Bruzzese, anche lui scivolato come “Mafarda” tra le braccia della giustizia, prima che il potere – ed è un sospetto investigativo ancora da dimostrare – torni nelle mani dei figli di “Banana”, di Luigi in particolare. Più lineare, invece, è la via cassanese alla successione che avviene in modo rigorosamente ereditario. Da Celestino Abbruzzese a Francesco Abbruzzese per finire – e anche qui siamo ancora nel campo dei sospetti – a Luigi Abbruzzese. Di padre in figlio.

Dove eravamo rimasti

L’attualità è ancora magmatica. Le ultime teorie investigative vogliono il clan di Cassano come l’atout, seme dominante rispetto ai cosentini, non a caso obbligati ad acquistare da loro i carichi di stupefacenti. Quest’ultimi, inoltre, avrebbero messo da parte gli antichi dissapori con i Forastefano, tornando a costituire un gruppo unico con gli ex arcinemici. Equilibri criminali rinnovati, dunque, che fanno da sfondo alla lunga scia di delitti che dal 2018 in poi funesta nuovamente la Sibaritide. Omicidi ancora irrisolti su cui aleggia lo spettro del nuovo ordine. Questa però è una storia ancora da scrivere. E da decifrare.  Prima che le carte si rimescolino ancora una volta.

Giornalista
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