In fuga dagli incubi del passato. «Italia, grazie per avermi salvato la vita»

VIDEO | La storia di Sanna, orfano gambiano partito dall’Africa per sottrarsi ai maltrattamenti di uno zio e arrivato in Calabria dove spera di ricostruirsi una vita. Nel suo racconto l'inferno delle carceri libiche e le baby gang assassine di Tripoli

 

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di Alessandro Stella
3 agosto 2018
11:01

Quella che stiamo per raccontarvi non è la classica storia da migrante, è quella di un ragazzino in fuga che percorre cinquemila chilometri per mettersi in salvo da un passato che lo insegue feroce.
Sanna è ancora un bambino quando perde la madre. Di lei non ricorda nulla. Cresce col padre, finché non si ammala anche lui e, sul letto di morte, è costretto ad affidarlo a uno zio. Inizia l’incubo per Sanna, tra giornate al pascolo e maltrattamenti dell’uomo.

 


La fuga

Esasperato, fugge, va incontro all’ignoto pur di lasciarsi alle spalle un passato lacerante. Il destino gli fa incontrare un uomo che prende a cuore le sue sorti e lo porta con sé affidandogli piccoli lavori manuali con cui tira a campare. Sanna è un adolescente, il lavoro lo porta a un esodo ininterrotto tra Senegal, Mali, Burkina Faso e Niger, uno stato di nomadismo alimentato dalla notizia che lo zio lo sta cercando. Terrorizzato dal ritorno alla vita precedente, fugge ancora, lascia il Niger, attraversa il deserto e arriva in Libia. L’obiettivo è mettere più chilometri possibili tra lui e lo spietato parente.
Sceglie l’Europa, attratto dai racconti dei compagni di viaggio che la descrivono come una terra promessa.

 

L'inferno di Fellah

In Libia, però, la situazione non è facile per chi ha la pelle nera: milizie paramilitari rapiscono i migranti per ottenere il riscatto dalle famiglie; gruppi di bambini armati sono disposti a uccidere per pochi spiccioli.
A Tripoli, Sanna è un clandestino, deve vivere nell’ombra, scomparire, tramutarsi in fantasma. Un giorno, però, si imbatte in un check point della polizia: scattano le manette che lo portano fino al campo di prigionia di Fellah, un inferno che non dimenticherà facilmente. Condizioni al limite delle condizioni umane, cibo razionato, poca acqua, quattrocento persone ammassate una sull’altra a contendersi un minimo di respiro.

 

Il lavoro per la polizia

Dopo otto mesi di detenzione, la visita di un emissario del capo della polizia locale, lo fa sperare: in caserma c’è bisogno di manodopera, servono tre persone che vengono subito scelte. Sanna rimane fuori, ma il suo sguardo implora salvezza. Mosso a compassione, l’emissario lo prende con sé. Due mesi di lavoro e la prospettiva, terminato il lavoro, di dover tornare a Fellah. Ma Sanna non potrebbe sopportare un ritorno in quell’inferno. Riesce a evadere, vaga per il quartiere di Grygaras da latitante, guardandosi le spalle da polizia, paramilitari e baby gang assassine. Dura poco. Intercettato, viene riportato in cella, ma qui, ancora una volta, il destino si dipana positivamente: alla polizia servono muratori e Sanna se la cava bene con la cazzuola in mano. Lavora duro, dà il massimo e, alla fine, ottiene l’inaspettata ricompensa: «Vai, sei libero». Sanna piange, le lacrime gli rigano il volto, lo purificano di tutte le sofferenze e le umiliazioni subite nella sua breve ma intensa vita.

 

«Grazie, Italia!»

Riconquistata la libertà, conosce per caso un uomo che collabora con gli scafisti e gli propone di imbarcarsi per l’Europa senza pagare. Sanna accetta senza pensarci due volte. In mare resterà quattro ore, finché una nave Ong non porterà lui e altre settante persone in salvo a Lampedusa e, da lì, in un centro di accoglienza in Calabria.
Dopo più di un anno di permanenza in Italia, Sanna ha il volto sofferto ma gli occhi colmi di speranza e luce. Dice di aspettare i documenti per poter lavorare e costruirsi un futuro che lo aiuti a seppellire un atroce passato a cui è riuscito a sopravvivere.
E, alla domanda sul momento più emozionante di tutta la sua odissea, non ha dubbi: «L’arrivo in Italia. Se non ci fossero stati gli italiani, sarei morto. Grazie, Italia!»

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