Affari illeciti

«I soldi sporchi per governare l’economia», così la ’ndrangheta ha provato a colonizzare Roma

Le motivazioni della sentenza del processo Propaggine ricostruiscono le attività del clan di Cosoleto. Gli equilibri criminali nella Capitale modificati da Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, capo dell’area affaristica della prima Locale autonoma della città eterna

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di Vincenzo Imperitura
30 marzo 2024
18:00

Da città “libera” a teatro di una nuova Locale: una trasformazione profonda che segna un nuovo passo nell’ottica della “colonizzazione” ‘ndranghetistica nei confronti della Capitale. C’è Roma infatti al centro delle motivazioni della sentenza “Propaggine”, una città in balia di molteplici gruppi criminali che da anni hanno trovato un posto nei tavoli che contano e che è diventata, suo malgrado, “laboratorio” per nuovi esperimenti di “gestione” criminale. Una “rivoluzione” partita nel 2015 con l’autorizzazione arrivata direttamente dalla Calabria (questa nuova costola romana viene ritenuta propaggine della Locale di Cosoleto) e che, almeno agli inizi, ha dovuto fare i conti con i mugugni di chi a Roma c’era da prima e non aveva gradito il “riassetto” del panorama criminale cittadino.

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La trasformazione della Locale di ’ndrangheta

«Risulta accertato – scrivono i giudici – che fino all’anno 2015 la Locale non esisteva, di conseguenza i calabresi, così come i siciliani e i campani, orbitanti nell’area delle rispettive consorterie storiche, vivevano ed agivano nella Capitale contemporaneamente, senza prevaricazioni e senza dominare, pur operando ciascuno nei propri affari illeciti». Un delicato equilibrio criminale modificato da Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, considerati rispettivamente capo dell’area criminale e capo di quella affaristica, della nuova Locale romana. Una locale spuria, che pur avendo ricevuto la formale autorizzazione da parte della Provincia, si approccia in maniera differente al suo territorio di appartenenza. «L’importante è che si marci» si raccomandava, intercettato dalle forze dell’ordine, Carzo che, dando prova di doti diplomatiche, aveva raccontato «che bisognava dimostrare rispetto e trasparenza “dobbiamo essere come l’acqua di fontana” nei confronti di quei calabresi che erano residenti a Roma da diversi anni e che appartenevano a storiche famiglie di ‘ndrangheta in particolare era necessario cercare di coinvolgerli in qualche modo nella nuova locale, sforzandosi cioè di essere inclusivi». Un approccio aperto che Carzo intendeva diversificare, coinvolgendo anche altri gruppi criminali non appartenenti alle cosche tradizionali ma già da tempo radicati in città. «Dammi tempo di liberarmi e ti giuro che io… entro a Ostia… entro da tutte le parti… vengo là, vado, sempre nel senso benevolo va’, vado da tutte le parti». Un cambio di direzione netto che Carzo vedeva come inevitabile rammaricandosi «del fatto che si trattava di un aspetto di fondamentale importanza che era stato sempre trascurato da soggetti che erano radicati a Roma da decenni».


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Cambio di funzione

Un territorio come quello di Roma «vasto, articolato e eterogeneo nonché popolato da molteplici gruppi criminali che tendono a stabilizzare i propri interessi illeciti in zone di interesse quali quartieri o parti di essi» presenta poi una serie di differenze che, scrivono ancora i giudici, necessitano anche di un cambio di funzione alla base della stessa Locale romana «che non è quella di controllo militare del territorio o di sopraffazione con la forza, finalità queste che sarebbero del resto impossibili» ma «quella di acquisire attività economiche mediante denaro proveniente da illeciti e per tale via acquisire un progressivo potere economico in attività commerciali lecite, controllando una fetta degli affari nei settori di interesse».

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