Sulla soglia del tempio

Il progetto deI figlio di un boss di ’ndrangheta: per contare di più voleva entrare nella massoneria a Roma

Domenico Carzo aveva puntato il Grande Oriente d’Italia: la sentenza del processo Propaggine tratteggia il suo tentativo (fallito) di affiliarsi. La presentazione da parte di due professionisti e lo stop arrivato quando un medico racconta i precedenti di due familiari dell’aspirante grembiulino

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di Pablo Petrasso
30 marzo 2024
06:15

È arrivato a un passo dall’indossare il grembiulino del Grande Oriente d’Italia in un tempio massonico della Capitale. Domenico Carzo, 39 anni, è per i giudici uno dei fondatori della prima Locale di ’ndrangheta a Roma. Figlio del boss Antonio, è stato condannato a 16 anni in primo grado nel processo Propaggine. E proprio tra le carte di quell’inchiesta viene richiamato il suo tentativo di entrare nel Goi, sventato quasi per caso da un medico calabrese. Se ne fa cenno anche nelle motivazioni della sentenza: «Carzo stava cercando di entrare in una loggia massonica» grazie all’intervento di due garanti. Si tratta di Antonio Francesco Orlando, odontoiatra e già assessore di Vignola fino al 2006, non indagato nell’inchiesta, ed Eugenio Mengarelli Denaro, commercialista che si offre di spiegargli quali sono i requisiti per l’ammissione. Orlando sarebbe stato il garante di Carzo nel percorso per l’accettazione. Tutto sembra procedere nel verso giusto ma, tra i due che «avrebbero dovuto garantire per lui», c’è un medico calabrese che avrebbe «rivelato i precedenti» dei suoi familiari.

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La sentenza rievoca uno dei dialoghi di Orlando con Antonio Carzo: tra i due vi sarebbe «un rapporto molto stretto». In una telefonata registrata dagli investigatori il 17 giugno 2017, il boss (condannato in primo grado a 20 anni) sottolinea il rapporto di «fratellanza» che lo lega a Orlando: «C’è la fratellanza con poche persone… come l’abbiamo io e te». Il professionista rilancia: «Di te e di tuo figlio mi fido… non mi fido più di nessuno».


I due, in effetti, sono legati. Il collegio del Tribunale di Roma richiama, per sottolinearlo, una telefonata del 9 settembre 2017 «nel corso della quale Antonio Carzo affrontava il problema delle possibili indagini contro la ’ndrangheta a Roma, evidenziando che nella Capitale si erano trasferiti i magistrati che avevano lavorato in Calabria».

«E questi – dice testualmente – era quelli che combattevano dentro i paesi nostri… Cosoleto… Sinopoli… tutta la famiglia nostra… maledetti». Carzo commenta con l’amico bolognese anche la recente, all’epoca, condanna subita dalla ’ndrangheta nel processo Aemilia e svela il timore «che l’attenzione giudiziaria si sarebbe spostata dalla mafia alla ’ndrangheta, sicché quest’ultima non poteva più operare in modo indisturbato». Quella «fratellanza» si riferisce, per i magistrati, «a una auspicata comune appartenenza massonica».

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Non è l’unica assonanza tra i due amici. Orlando racconta al boss calabro-romano del grosso credito che vanta nei confronti di un uomo. E sottolinea che «per risolvere la questione aveva accuratamente evitato di rivolgersi all’autorità giudiziaria per un duplice ordine di ragioni». Innanzitutto perché «succede… magari trasi (entri, ndr) in una combinazione… amici… dici ’Ntoni che facisti». Il senso è che «i sodali avrebbero potuto rimproverargli di essersi rivolto alla legge, e Antonio Carzo conferma il rischio, precisando che un’azione del genere lo avrebbe potuto esporre al rischio di essere qualificato come infame». Il secondo motivo è quello di non attirare su di sé le attenzioni investigative per il timore «di dover dimostrare la provenienza del denaro» ed evitare, così, indagini a suo carico «dalle quali sarebbe potuta emergere l’appartenenza a una famiglia di ’ndrangheta».

Famiglie e fratellanze contano molto nella storia della scalata della ’ndrangheta ai vertici del crimine a Roma. Domenico Carzo ambisce a entrare nella fratellanza più importante d’Italia. E inizia il proprio percorso grazie ai consigli di Mengarelli che, racconta l’Espresso, avrebbe avuto un ruolo apicale in una loggia romana.

Le regole del Goi prevedono che gli aspiranti massoni indichino i precedenti dei propri familiari: Carzo “dimentica” che suo padre e suo nonno sono pregiudicati e indica due massoni come testimoni della sua rettitudine. Uno è proprio Antonio Francesco Orlando, iscritto a una loggia di Bologna; l’altro è un oculista già maestro venerabile di una loggia nella Piana di Gioia Tauro. È proprio il medico a far saltare tutto: spiega ai “fratelli” della loggia romana che ci sono familiari di Carzo con precedenti che disegnano un contesto di ’ndrangheta. I massoni del Goi si insospettiscono e incalzano l'aspirante grembiulino, lui cerca di uscire dall’angolo ma le sue spiegazioni non convincono la loggia: la sua speranza di entrare nel Grande Oriente finisce qui.

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