Arresti a Reggio Calabria, gli ordini dal carcere e le estorsioni: i dettagli dell'inchiesta Pedigree

NOMI-INTERCETTAZIONI | Le direttive dalla casa circondariale, l'agente corrotto, la moglie “postina”e il controllo asfissiante del territorio. Tutti i dettagli dell'operazione che ha portato all'arresto di 12 persone

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di Redazione
9 luglio 2020
12:07

Sono 12 complessivamente le persone arrestate (11 in carcere e uno ai domiciliari per ragioni di salute) questa mattina nell’ambito dell’operazione denominata Pedigree eseguita dalla Squadra mobile coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Sono ritenuti responsabili di associazione mafiosa (cosca Serraino e Libri) e, a vario titolo, di estorsione, intestazione fittizia di beni, danneggiamento, porto e detenzione illegale di armi da fuoco, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, illecita concorrenza con violenza o minaccia, incendio, aggravati dalla circostanza del metodo e dell’agevolazione mafiosa.

I nomi degli arrestati

  • Maurizio Cortese, nato a Reggio Calabria il 18.4.1980, ivi residente, già detenuto per altra causa;
  • Domenico Sconti, nato a Reggio Calabria il 20.1.1957 e residente in Santo Stefano d'Aspromonte- Località Gambarie [genero di Francesco, inteso don Ciccio Serraino, “boss della montagna”;
  • Domenico Morabito, nato a Cardeto [RC] il 14.11.1975, residente a Reggio Calabria;
  • Salvatore Paolo De Lorenzo, nato a Reggio Calabria il 28.10.1971, ivi residente;
  • Antonino Filocamo, nato a Reggio Calabria 1'11.2.1988, ivi residente;
  • Antonino Barbaro, nato a Reggio Calabria il 26.12.1986, ivi residente;
  • Sebastiano Massara, nato a Palmi il 7.10.1986, residente a Reggio Calabria;
  • Stefania Maria Pitasi, nata a Reggio Calabria l’1.1.1983, ivi residente [moglie di Cortese Maurizio];
  • Paolo Pitasi, nato a Reggio Calabria il 26.5.1952, ivi residente [suocero di Cortese Maurizio e padre di Pitasi Stefania Maria, destinatario della misura della custodia degli arresti domiciliari].
  • Carmelo Leonardo, nato a Reggio Calabria il 7.7.1963, ivi residente;
  • Bruno Nucera, nato a Reggio Calabria 1'11.10.1968, ivi residente;
  • Sebastiano Morabito, nato a Cardeto il 18.8.1966, residente a Reggio Calabria - località Gallina.


Le imprese sequestrate

Contestualmente agli arresti sono state eseguite perquisizioni personali e domiciliari e il sequestro preventivo delle seguenti imprese:


  • ditta individuale denominata "Un Mondo di Frutta Vip di Nucera Bruno", esercente l'attività di commercio di prodotti alimentari, con sede a Reggio Calabria;
  • ditta individuale denominata "Le Primizie di Leone Massimo" esercente l'attività di commercio di prodotti alimentari, con sede in Reggio Calabria;
  • bar Mary Kate riconducibile all'impresa individuale "Morabito Bruno", con sede a Reggio Calabria;
  • impresa individuale “Royal Cafe di Filocamo Antonino” con sede a Reggio Calabria.
  • ditta individuale denominata "Un Mondo di Frutta Vip di Scaramozzino Fabio" esercente l'attività di commercio di prodotti alimentari, con sede a Reggio Calabria.

 

Le indagini

Le indagini avrebbero documentato l’esistenza e l’operatività delle potenti cosche Serraino e Libri e offerto uno spaccato estremamente chiaro delle dinamiche criminali delle cosche di ‘ndrangheta operanti, attraverso le loro articolazioni territoriali, nel quartiere di San Sperato e nella frazione Gallina, nonché nel comune di Cardeto e a Gambarie d’Aspromonte, soprattutto nel settore delle estorsioni ai danni di imprenditori e commercianti locali, nell’imposizione con violenza e minaccia di beni e servizi e nell’impiego dei proventi delle attività delittuose in esercizi commerciali nel campo della ristorazione (bar) e della vendita di frutta, intestati a compiacenti prestanomi allo scopo di eludere l’applicazione delle disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali e il sequestro delle imprese ai sensi della normativa antimafia.

 

L’inchiesta ha avuto inizio l’1 settembre 2017 quando gli investigatori della Squadra Mobile di Reggio Calabria catturavano unitamente ai colleghi dell’Arma dei Carabinieri, all’interno di un immobile di Reggio Calabria, il latitante Maurizio Cortese.

 

Le investigazioni - svolte dalla Squadra Mobile grazie alle intercettazioni - consentivano di confermare la piena operatività della cosca Serraino e di accertare:

  1. come sia penetrante ed attuale il controllo criminale esercitato dagli appartenenti all’associazione mafiosa in argomento sul territorio di competenza (comprendente i quartieri cittadini di San Sperato, Modena, Arangea, Cataforio, Mosorrofa e dei comuni di Cardeto e Santo Stefano d’Aspromonte);
  2. come la stessa abbia in sé tutti gli elementi caratterizzanti un sodalizio di stampo mafioso, ovvero un’organizzazione stabile ed efficiente, in virtù della quale è in grado di porre in essere quel controllo criminale di cui al punto che precede, mediante la propria, specifica, forza di intimidazione e la conseguente condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva;
  3. l’attuale pericolosità della cosca e la sua capacità di diversificare i propri interessi illeciti, in quanto in grado di perpetrare, attraverso i suoi esponenti, delitti di diversa specie e natura, tutti però da considerarsi finalizzati a realizzare i suoi scopi.

 

Il vertice - scrivono gli inquirenti - è rappresentato da Maurizio Cortese, genero di Paolo Pitasi (don Paolo Pitasi) che era stato uno dei principali collaboratori di Francesco Serraino, noto come il "boss della montagna", assassinato durante la seconda guerra di ‘ndrangheta.    

Nel corso degli anni, Cortese ha acquisito una sempre maggiore importanza nell'ambito dei gruppi mafiosi, riuscendo ad arrivare ai vertici della cosca, con specifica competenza territoriale nel quartiere di San Sperato, grazie anche ai rapporti che ha saputo coltivare, durante la sua carcerazione con alcuni rappresentanti carismatici di altre consorterie della ‘ndrangheta reggina.

Il comando dal carcere        

Nonostante fosse detenuto nel carcere di Torino, Cortese Maurizio riusciva a gestire gli affari illeciti della cosca attraverso i colloqui con la moglie Pitasi Stefania e Filocamo Antonino, mediante un costante rapporto epistolare con gli affiliati, in particolare con la moglie, nonché con l’utilizzo di dispositivi cellulari introdotti abusivamente all’interno della struttura carceraria e infine avvalendosi del servizio di messaggistica “email” attivo nella struttura di detenzione.

La moglie "postina"

Pitasi Stefania Maria ha operato costantemente come postina della cosca guidata dal coniuge Cortese Maurizio, trasmettendo messaggi (imbasciate) e informazioni essenziali per l'operatività del gruppo mafioso e per l'esercizio della funzione di comando del Cortese. Quest’ultimo, pur essendo detenuto, ha continuato a svolgere le sue funzioni di capo cosca, impartendo direttive dal carcere per eseguire estorsioni e pianificare intestazioni fittizie di beni, grazie innanzitutto ai colloqui con la moglie, alla corrispondenza epistolare ed elettronica e ai telefoni cellulari clandestinamente introdotti in cella.

 

Cortese utilizzava dunque lettere formalmente indirizzate alla moglie per impartire disposizioni ai membri della cosca, che la donna provvedeva a far recapitare. In particolare, dava disposizioni all’affiliato De Lorenzo su come comportarsi in occasione della riscossione delle estorsioni da imprenditori e commercianti.

I modi «troppo garbati» dell'affiliato


In una circostanza, tramite una lettera diretta alla Pitasi, Cortese si era lamentato dei modi alquanto garbati che, a suo parere, De Lorenzo era solito usare nei confronti dei soggetti che manifestavano difficoltà nei pagamenti. In buona sostanza il capo cosca avrebbe voluto che il suo affiliato - in caso di inottemperanza alle richieste - passasse alle maniere forti, in modo da imporre il rispetto degli impegni presi [“… perché non hai preso un nervo per dare una ripassata a quattro, cinque o per andare ad importi...]. De Lorenzo, dal canto suo, si mostrava infastidito dalle incomprensioni con il boss detenuto e pretendeva il rispetto che gli era dovuto in ragione della sua fedele affiliazione alla cosca Serraino [“dote” a suo tempo conferitagli dalla casa madre della consorteria dei Serraino “della montagna”] ma era favorevole a seguire le leggi della cosca, sottolineando di non avere problemi ad adempiere persino a mandati omicidiari, laddove fosse stato necessario per dare attuazione alle regole della ‘ndrangheta, (“Se devo andare a sparare ad uno, vado”).

 

Con le medesime modalità operative, Maurizio Cortese intratteneva rapporti epistolari anche con Domenico Sconti, genero del defunto Francesco Serraino detto il "boss della montagna".

L'agente di polizia corrotto

Dall’indagine emergevano, inoltre, diversi elementi che dimostrano come Cortese, grazie alla corruzione di un agente di polizia penitenziaria e al costante supporto dei sodali Antonino Barbaro, Antonino Filocamo, Salvatore Paolo De Lorenzo, Pitasi Paolo e Pitasi Stefania, nonché di altri detenuti, avesse a disposizione telefoni cellulari e alcune schede "citofono" con le quali riusciva a comunicare riservatamente con l’esterno, impartendo disposizioni sia alla moglie che ad altri sodali attinenti alle dinamiche e alle attività delittuosa della cosca di cui continuava a tenere le redini nonostante lo stato di detenzione carceraria. Era lo stesso Cortese a spiegare, nel corso di una conversazione captata nel mese di aprile 2019, come fosse riuscito ad introdurre all'interno della Casa Circondariale l'apparecchio telefonico e nel fare riferimento a “guardie corrotte” affermava che uno degli agenti penitenziari (non identificato), dietro pagamento di 500 euro, si era prestato a consegnargli abusivamente il telefono. L’apparecchio cellulare veniva rinvenuto, il 9 aprile 2019, nel corso di una perquisizione della cella di Cortese Maurizio. Nel maggio 2019 - dopo il sequestro del telefono e il trasferimento in un altro carcere - il boss ricominciava ad utilizzare il metodo di comunicazione epistolare.

Le estorsioni

L’attività investigativa ha dimostrato come la cosca guidata da Cortese Maurizio controlli capillarmente il territorio sul quale esercita il dominio mafioso e sia dedita all'intimidazione e alla violenza in funzione dell'accaparramento di proventi estorsivi a carico di imprenditori e commercianti. Nell’ottica della massimizzazione dei profitti, Cortese non ha esitato ad ordinare la distruzione del bar dell’associato Morabito Domenico per avvantaggiare l’altro sodale Filocamo Antonino, operante nella stessa zona, dal quale avrebbe ottenuto maggiori prebende.  

 

Ed invero, in qualità di gestore di fatto del bar “Mary Kate” sul Viale Calabria, Morabito Domenico aveva promesso a Cortese somme di denaro per essere stato autorizzato ad aprire il bar nella zona notoriamente controllata dai Labate. Tuttavia il Cortese, ritenendosi non soddisfatto dalle prestazioni del Morabito - il quale, peraltro, avrebbe riferito di aver aperto l’esercizio commerciale senza il placet di alcuno - aveva preferito ampliare i suoi guadagni accettando maggiori offerte da Filocamo Antonino, titolare del “Royal Cafè”, ubicato nelle vicinanze del “Mary Kate”, finché il Cortese aveva deciso di farlo chiudere con due gravi danneggiamenti eseguiti mediante incendio dal Filocamo. Assunta la determinazione di azzerare la concorrenza del Morabito, il boss forniva dal carcere le indicazioni di dettaglio alla moglie, celate da un linguaggio criptico, ma ben noto alla Pitasi la quale, ancora una volta, si prestava a fare da vettore delle disposizioni del capocosca agli affiliati.


Cortese Maurizio impartiva le sue direttive facendo ricorso ad espressioni relative all’ambiente dei “cani. Nello specifico l’espressione “Tenere il cane di Monica” stava a significare che doveva essere danneggiato il bar “Mary Kate” di Morabito Domenico, coniugato con Monica Tomaselli. Cortese Maurizio aveva individuato nel sodale Massara Sebastiano - assiduo frequentatore della famiglia Cortese -PITASI e noto come " picchiatore" e "demolitore" - il soggetto che doveva porre in essere l’azione delittuosa (indicata con le locuzioni “monta” e “accoppiamento”) rispetto alla quale era necessario osservare la massima riservatezza. E così, nella serata del 12 aprile 2019, il bar “Mary Kate” sito in Viale Calabria, subiva un grave danneggiamento causato da un incendio doloso. A commettere il delitto non era stato però Massara Sebastiano come disposto dal Cortese ma lo stesso Filocamo Antonino che aveva agito - in anticipo rispetto al Massara - non avendo bene inteso le disposizioni date dal boss dal carcere. Da quel momento Cortese Maurizio avrebbe preteso da Filocamo Antonino l'elargizione di cospicue somme di denaro, sicché disponeva alla moglie di contattare il predetto per chiarire che della vicenda del danneggiamento, finalizzato appunto ad eliminare la concorrenza del bar “Mary Kate” del Morabito avrebbe preferito occuparsene lui direttamente Cortese. Ulteriori intese intercorse evidentemente con il Cortese consentivano al Morabito di riaprire il bar.

 

Filocamo e Cortese quindi concordavano che se Morabito avesse riaperto il bar, essi avrebbero posto in essere ulteriori danneggiamenti (“accoppiamenti”). Il 13 maggio 2019, Morabito avviava i lavori di ristrutturazione dell’esercizio commerciale. Ed esattamente 5 giorni dopo l'inizio dei lavori, i1 “Mary Kate” subiva un nuovo danneggiamento mediante incendio.

 

Domenico Morabito si è distinto anche per aver posto in essere atti di concorrenza sleale con minaccia e di natura estorsiva ai danni del proprietario di un immobile il quale è stato costretto a cedergli in locazione i locali destinati al bar anziché a due fratelli con i quali aveva in corso trattative. La spiccata autorevolezza criminale del Morabito , acquisita e pienamente avvertita dall'esterno, grazie alle frequentazioni con soggetti di altissima caratura criminale, come ad esempio Domenico Sconti, nonché il tono velatamente intimidatorio del linguaggio adoperato, inducevano il proprietario dei locali a non controbattere alle richieste del Morabito a difesa della propria libertà di autodeterminazione, ma anche a fornire una giustificazione a quell'affronto, mostrando tutta la propria accondiscendenza con un finale "voi siete il padrone signor Morabito ". Morabito Domenico aveva scelto di schermare l'esercizio da possibili provvedimenti ablativi, utilizzando l'espediente dell'intestazione fittizia, evidentemente preoccupato di possibili indagini in corso a suo carico.

 

 

Anche in relazione all'attività di panetteria il Cortese, coadiuvato dalla moglie Stefania Pitasi e con il concorso materiale del sodale De Lorenzo Salvatore Paolo, ha imposto la sua forza di intimidazione mafiosa costringendo un rivenditore a fare rifornimento di pane presso l'esercizio abusivo dei coniugi [Cortese-Pitasi] che si servivano di un forno a legna in casa.

 

Coadiuvato dalla Pitasi, Cortese, ha posto in essere pressioni estorsive anche nei confronti del titolare di un bar di via San Sperato. La richiesta estorsiva, che doveva essere materialmente eseguita da Antonino Filocamo, aveva ad oggetto la somma di euro 2.500,00. Cortese impartiva le direttive tramite l'utenza cellulare che deteneva clandestinamente presso il carcere di Torino, nonché tramite il servizio di messaggistica attivo presso la medesima struttura carceraria. Come erano soliti fare per discutere di estorsioni Maurizio Cortese Maurizio - che è titolare dell'impresa individuale denominata "Allevamento Paonellas di Maurizio Cortese", con sede a Reggio Calabria - e Pitasi Stefania utilizzavano espressioni tipiche delle attività di allevamento di cani, così da non destare sospetti in caso di intercettazioni. La pretesa estorsiva non andava a buon fine in quanto il commerciante aveva rappresentato l'impossibilità di fare fronte alla richiesta dal momento che versava in una situazione di “difficoltà” economica. È in questo momento che Cortese ordinava l'esecuzione di un'azione ritorsiva in danno della vittima, stabilendo modalità e tempistica della stessa, ovvero facendo riferimento ad un'azione di danneggiamento dell'esercizio commerciale della vittima. Decideva quindi di fare eseguire l'azione a Sebastiano Massara dopo circa 20 giorni, con modalità analoghe a quelle adottate circa due anni prima. L’azione criminosa non si era concretizzata in quanto, subito dopo la registrazione delle suddette conversazioni, in data 2 maggio 2009, Personale della Squadra Mobile procedeva alla perquisizione dell'abitazione di Sebastiano MASSARA.

 

Una ditta impegnata in lavori di ristrutturazione di un edificio a due piani fuori terra ubicato in Reggio Calabria, del valore di 40.000 euro, veniva costretta da Cortese Maurizio, Pitasi Paolo, Pitasi Stefania, mediante minacce dirette ed indirette derivanti dalla forza intimidatrice della cosca, a corrispondere una percentuale sull'importo dei lavori da eseguire. Venivano coadiuvati dai sodali Sconti e Barbaro. L’estorsione si consumava nel marzo del 2019 e aveva ad oggetto la dazione da parte della vittima di euro 1.000,00.

 

A Cortese Maurizio e a De Lorenzo Salvatore Paolo è contestato anche il delitto di estorsione aggravata perché, con minaccia implicita derivante dalla loro appartenenza alla cosca Serraino, costringevano un numero indeterminato di soggetti non identificati  a rinunciare ai crediti che vantavano nei confronti del De Lorenzo, tra cui uno di 105.000 euro a titolo di corrispettivo per alcuni lavori di edilizia dallo stesso commissionati. Maurizio Cortese, intimava alle persone offese di non avanzare richieste di pagamento, avvertendole del suo personale interesse alla rimessione dei debiti del De Lorenzo.

 

A De Lorenzo Salvatore Paolo  è contestato il delitto di detenzione e porto illegale in luogo pubblico  di due o tre pistole mitragliatrici Beretta PM 12 o comunque armi aventi analoghe dimensioni e caratteristiche esteriori.

Prestanome

L’inchiesta ha dimostrato anche come alcuni indagati, in ragione della loro appartenenza alla cosca Serraino e della consapevolezza di potere essere destinatari di provvedimenti di custodia cautelare o di misure di prevenzione personale e patrimoniale, abbiano posto in essere un’accurata attività di fittizia attribuzione della titolarità di attività imprenditoriali al fine di eludere i controlli delle forze dell’ordine e le disposizioni di legge in tema di misure di prevenzione.

I principali protagonisti di tali vicende sono stati Cortese Maurizio, Pitasi Stefania, De Lorenzo Salvatore, Morabito Domenico, Nucera Bruno.

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