A. M., operaio di 33 anni, è morto venerdì scorso stroncato da un malore ancora prima di riuscire a raggiungere l’ingresso dell’ospedale di Praia a Mare. Si era sentito male mentre lavorava in un cantiere privato allestito nella zona sud della città dell’isola Dino, a pochi passi dal mare e aveva deciso di recarsi autonomamente in pronto soccorso per un controllo. Ma non ci è mai arrivato. Il giovane si è accasciato a terra appena sceso dall'auto e non si è più rialzato, nonostante il disperato tentativo dei sanitari di rianimarlo. Lascia la moglie e un bimbo piccolo.

Saranno le indagini degli inquirenti a stabilirne le reali cause, ma il pensiero, inevitabilmente, è andato alle temperature altissime di quel giorno.

Ora la famiglia, con una lettera aperta pubblicata sui canali social, chiede giustizia, per stabilire se le cause della morte siano riconducili o meno alle condizioni lavorative.

La lettera

Riportiamo testualmente il contenuto della lettera.

“Lettera aperta per la perdita di nostro figlio

A cura della Famiglia Maio

(pubblicazione a mezzo del nostro legale di fiducia)

«Non è naturale che un genitore pianga un figlio. Non è giusto che un bambino cresca senza il proprio padre. Non è umano morire per lavorare."

Con il cuore spezzato e lo sguardo perso nel dolore, ci troviamo costretti a scrivere queste parole che mai avremmo voluto pronunciare.

Nostro figlio, [A.M.], aveva solo 33 anni. Era un uomo pieno di vita, un lavoratore instancabile, un figlio devoto e soprattutto un padre meraviglioso di un bambino di appena un anno. Aveva sogni, responsabilità, amore da dare. E un futuro davanti, che qualcuno gli ha tolto.

È morto sul lavoro. Una morte assurda, inaccettabile, frutto di negligenze, di omissioni, di quella colpevole leggerezza che da troppo tempo grava su chi lavora con onestà e sacrificio. Le circostanze della sua morte gridano vendetta e giustizia. Non si può morire mentre si cerca, con dignità, di dare un pane alla propria famiglia.

È uscito quella mattina come sempre, con il sorriso, con il bacio al suo bambino e l’abbraccio alla compagna. Non sapeva – e non sapevamo – che sarebbe stato l’ultimo saluto.

Non vogliamo vendetta, ma pretendiamo verità e giustizia. Lo dobbiamo a lui, a suo figlio, e a tutte le famiglie che come la nostra si sono viste strappare una persona amata per colpa di un sistema che troppo spesso dimentica che il lavoro deve essere vita e mai morte.

Con questa lettera chiediamo alle istituzioni, agli organi competenti, alla società civile di non voltarsi dall’altra parte. Di guardare in faccia il dolore di una famiglia distrutta. Di riconoscere la responsabilità laddove essa esiste, e di non lasciare che la morte di nostro figlio cada nel silenzio.

Ci faremo forza, anche con l’aiuto del nostro legale, per percorrere tutte le strade possibili affinché venga fatta piena luce su quanto accaduto. E perché A. non sia ricordato solo come un numero tra le statistiche degli incidenti sul lavoro, ma come un padre, un figlio, un uomo.

Per lui, per suo figlio, per tutti noi.

La famiglia di A. M.”».