‘Ndrangheta

La storia di Bruno Caccia, procuratore capo di Torino ucciso 40 anni fa: una verità accertata solo in parte

Nonostante i processi e le condanne di Domenico Belfiore e Rocco Schirripa, trapiantati nel torinese ma originari di Gioiosa Ionica nel reggino, restano ancora molte ombre su questo delitto

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di Anna Foti
26 giugno 2023
21:52

È una sera di giugno, l’ultima di Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica di Torino. Quella sera il magistrato che vive sotto scorta, si concede una passeggiata con il cane sotto casa prima di andare a dormire. La scorta che ogni istante veglia su di lui, è a riposo. Ed è proprio quella la sera in cui un commando sorprende il magistrato che indaga bene e a fondo sugli anni di Piombo e sull'espansione della 'ndrangheta nella torinese e in Piemonte.

È la sera del 26 giugno 1983. Indaga ed è inavvicinabile, dunque scomodo. Integrità, intransigenza, incorruttibilità, determinazione, qualità che Bruno Caccia possiede e che lo rendono inviso a chi vorrebbe piegarlo. Dunque, con lui i processi non si possono aggiustare. Questa sarebbe stata una ragione sufficiente per freddarlo. Come accade quella sera quando è raggiunto da con 14 colpi di pistola. Bruno Caccia è l'unico magistrato vittima della mafia al nord. 


L’iniziale pista delle Brigate Rosse, in quegli anni ancora caldi e di cui da magistrato si stava occupando, ha lasciato poi spazio a quella mafiosa. La mano è stata della 'ndrangheta, già negli anni Ottanta in forte espansione in Piemonte e in tutto il nord. Ma probabilmente non solo la sua.

La verità parziale


Uno degli esecutori materiali del delitto fu l’ex panettiere originario di Gioiosa Ionica nel reggino, Rocco Schirripa, arrestato nel 2015 e condannato per questo delitto all’ergastolo nel 2017, con sentenza diventata irrevocabile nel 2020. Trasferitosi dalla Calabria a Torrazza Piemonte, è lui la fonte delle informazioni sulla base delle quali lo scorso anno, la procura generale di Milano ha riaperto le indagini. Lo chiedevano da tempo anche di figli del procuratore Caccia, Guido, Paola e Cristina, sollecitando un'allargamento delle indagini anche ai clan catanesi e quindi a Cosa Nostra. Intanto nel 1992 era già stato condannato in via definitiva all’ergastolo un presunto boss, Domenico Belfiore, anche lui di Gioiosa Ionica nel reggino, con l’accusa di mandante del delitto Caccia. Continua a leggere su IlReggino.it.

 

Giornalista
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