Se è vero che «persino un Dio Re può sanguinare», ci sta che un collaboratore di giustizia possa finire in cella per qualche anno. Il recente arresto di Franco Pino ci ricorda questa massima e sfata una convinzione diffusa, ma errata: che i pentiti non vanno in carcere. E invece no, ci vanno proprio come gli altri, quando la loro condanna passa in giudicato. È esattamente ciò che è successo all'ex boss cosentino, riconosciuto colpevole, in via definitiva, di essere il mandante degli omicidi di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti, risalenti al febbraio del 1986.

Una differenza c’è

Pentito o no, dunque, alla fine della corsa, il suo destino è comune a quello dell'altro imputato Francesco Patitucci. Lo dice la legge e, com'è noto, la legge è uguale per tutti. Il discrimine, invece, sta tutto nell'entità della pena: solo otto anni al mandante, in virtù delle attenuanti della collaborazione; ergastolo a uno degli esecutori materiali del duplice delitto. Non pioverà per sempre, insomma, non per il collaboratore Franco Pino almeno, ma per il momento anche lui stacca un biglietto d'ingresso per il penitenziario, uno di quelli dotato di un braccio per collaboratori di giustizia: Alessandria, Paliano, Monza, Catania e altri ancora, di posti così in Italia se ne trovano da Nord a Sud, passando per le Isole. Non ci resterà per tutta la durata della pena; l'altra differenza, di non poco conto, è questa. Un primo beneficio potrebbe ottenerlo con il riconoscimento della cosiddetta continuazione dei reati. Pino, infatti, è stato già condannato per una sfilza di omicidi da lui ordinati o eseguiti personalmente ai tempi dello scontro armato tra il suo clan e quello guidato da Franco Perna. Le esecuzioni di Lenti e Gigliotti sono in evidente continuità con quel contesto luttuoso e macabro, sia in termini di tempo che di subcultura. Uno sconto di pena, quindi è alla sua portata.

Non può piovere per sempre

Godrà poi di privilegi carcerari più marcati rispetto a quelli dei detenuti comuni, ma prima che possa ottenere la detenzione domiciliare, dovrà aver scontato almeno un quarto della sua condanna. L’eventuale buona condotta gli consentirà di accedere a permessi di uscita straordinari; di usufruire, al pari degli altri, dei 45 giorni annui di liberazione anticipata; e il fatto che sia ormai più che settantenne, apre spiragli per una valutazione clinica sulla compatibilità tra le sue condizioni di salute e il regime carcerario. Un iter già avviato, ma servirà almeno un annetto prima che se ne vedano gli effetti. Nell'attesa, si ripropone per lui lo stesso film del 2013, quando finì nuovamente dietro le sbarre dopo la condanna definitiva incassata nel processo Missing. Pino torna in carcere, oggi come allora.

La macelleria di Rende

Che poi meritasse davvero questo epilogo, è un altro discorso. Lenti e Gigliotti erano due rapinatori dal grilletto facile che gravitavano nel suo clan senza rispettarne regole e gerarchie. Proprio la loro autonomia li aveva resi invisi a buona parte del gruppo criminale. Nel mirino c'era soprattutto Gigliotti, l'inseparabile Lenti pagherà per quella sua frequentazione assidua. La loro epurazione avviene in questo contesto. Il processo ha accertato come a febbraio del 1986 entrambi siano stati attirati a casa di Patitucci, nella campagna rendese, per un pranzo a base di frittole rivelatosi, invece, una trappola mortale. I dettagli della loro fine rimandano a una scena da macelleria messicana: Lenti decapitato sotto gli occhi dell'amico, a sua volta torturato con un punteruolo e poi ucciso a colpi di fucile, con i corpi poi scaricati sulla montagna di Falconara e lasciati lì, semisepolti dalla neve.

Di estrema destra

Una storia horror dalla quale Pino si è sempre chiamato fuori. Sostiene di non aver dato lui l'ordine di uccidere Gigliotti e, al contrario, si sarebbe prodigato per salvargli la vita. Il vero mandante, a suo dire, era Tonino Sena che, risentito per le ripetute mancanze di rispetto subite dai due rapinatori, aveva fatto «il lavaggio del cervello» ai ragazzi del gruppo, convincendoli della pericolosità di Gigliotti e, quindi, della necessità di eliminarlo. Una versione dei fatti che Pino ha proposto fin dal 1996 e che, però, è rimasta congelata per quasi vent'anni, un po' per mancanza di riscontri e un po' per inerzia delle Procure. Anche per questo, la sua condanna suona un po' come una beffa. Il tema della sua innocenza, l'ex boss lo ha riproposto in occasione del processo, quando a puntare il dito contro di lui in aula – e a tentare di scagionare Patitucci – c'erano anche i reo confessi Gianfranco Ruà e Gianfranco Bruni. In quell'occasione, Pino ha ribadito di non aver mai avuto alcun malanimo nei confronti di Gigliotti a cui lo accomunava anche una simpatia politica. «Avevo una mia idea di ordine – spiegò in udienza – e per questo sono sempre stato di estrema destra, ma di quella destra che mette le bombe».

Epilogo

Gigliotti, invece, era uno che le bombe le aveva messe, ma non per questo, a suo dire, meritava di morire. «Ho fatto di tutto per salvarlo e credo di avergli anche allungato la vita. All'epoca, però, mi trovavo in carcere, vivevo un momento di grande debolezza e la mia posizione di capo non era così solida. Non potevo forzare la mano troppo a lungo. E così, all'ennesima volta che sono venuti a parlarmi della necessità di ucciderlo, ho detto loro: “Vabbè, fate come volete”». Poi, rivolto ai giudici, aggiunse con po' di rassegnazione: «Se ritenete che questo faccia di me un colpevole, allora condannatemi pure». Alla fine, è andata proprio così.