I verbali

Le verità di Matteo Messina Denaro: «Non mi pentirò mai. Provenzano? Non potevo fare come lui»

Nel lungo interrogatorio davanti ai pm di Palermo, il boss spegne ogni speranza di collaborazione e prende le distanze da Bernardo Provenzano. Poi si giustifica: «L’imprecazione contro Falcone? Non ce l’avevo con lui»

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di Consolato Minniti
13 agosto 2023
09:13

«Dottore De Lucia, io non mi farò mai pentito». Se c’è una certezza che spicca dall’interrogatorio cui Matteo Messina Denaro è stato sottoposto lo scorso 13 febbraio è che la scelta di collaborare con la giustizia non è fra quelle che il boss intende prendere in minima considerazione. È quanto emerge dalle risposte fornite ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Palermo nei verbali depositati agli atti dei processi: «Io non le faccio queste cose».

Anche su eventuale documentazione o altre cose ancora nascoste, l’idea è netta: «Qualora ce le avessi, non le darei mai, non ha senso per il mio tipo di mentalità». Non che vi sia mai stata questa concreta possibilità, ma le laconiche espressioni proferite dal boss spengono ogni possibile speranza, anche con riferimento ai fatti stragisti calabresi su cui, certamente, Messina Denaro – le cui condizioni di salute si sono di recente aggravate – avrebbe potuto fornire un importantissimo contributo. Una tale chiarezza, forse, rappresenta anche un preciso messaggio a tutti coloro che temevano una simile circostanza: Messina Denaro rassicura e lo fa con toni perentori. Così come, con altrettanta sicumera, dice ai magistrati, lanciando l’ennesimo messaggio: «Provenzano? Non potevo fare come lui, con ricotta e cicoria».


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Messina Denaro e il pentito Geraci

Nel corso dell’interrogatorio, il boss apre uno degli argomenti cruciali: il suo rapporto con il collaboratore Francesco Geraci, gioielliere di Castelvetrano che fece ritrovare alcuni gioielli di Totò Riina. Messina Denaro e Geraci erano amici d’infanzia. Il boss di Cosa Nostra mostra di sapere dove si trovasse a Bologna, pur non essendo a conoscenza della morte dell’ex amico, avvenuta qualche giorno prima dell’interrogatorio. I magistrati si incuriosiscono.

Pm: E come sapeva che abitava lì a Bologna?

MMD: Tramite strade mie, è ovvio, sto dicendo pure via e numero.

Pm: E quali erano queste “strade sue”?

MMD: Allora, strade mie, se lei mi vuole portare a dire che era qualcuno dello Stato…

Pm: No, io non la voglio portare a dire niente, io faccio…

Pm2: Questo lo abbiamo capito, noi avremmo tante domande, ma la stiamo ascoltando, perché tanto, se io le chiedo delle cose, lei non mi risponde, quindi…

MMD: No, rispondo alle cose…

Pm1: Però noi le domande gliele facciamo lo stesso, quindi quali erano…

MMD: Sì, io preferisco…

Pm1: queste “strade” quali erano?

MMD: Allora le strade che lo hanno detto a me, ovviamente non ve lo posso dire, perché significa che usciamo da qua ed andate ad arrestare persone ed io non le faccio queste cose

Messina Denaro: «Cosa Nostra? La conosco dai giornali»

«Io uomo d’onore? Sì, ma non come mafioso. Cosa Nostra? La conosco dai giornali. Stragi, omicidi? Non c’entro niente». Messina Denaro si mostra sicuro. Ammette solo piccole responsabilità e, per il resto, si trincera dietro una non conoscenza. «In tutti i processi non c’è mai stato riscontro oggettivo», ribatte alla domanda del pm.

La conoscenza con Provenzano

Una cosa, però, Messina Denaro non può non ammetterla: conosceva Bernardo Provenzano. «Non l’ho mai conosciuto visivamente – spiega – ma sapevo chi era, ci mancherebbe». Sulle ragioni per cui scriveva a Provenzano, Messina Denaro ha una opinione tutta sua: «Quando si fa un certo tipo di vita, poi arrivato ad un dato momento ci dobbiamo incontrare, perché io latitante accusato di mafia, lui latitante accusato di mafia, dove si va?». Messina Denaro ricorda di aver chiesto favori a Provenzano, anche se «omicidi non ce n’erano, questo è sicuro». Poi arriva un abbozzo di giustificazione: «Su di me è da 30 anni che travisano, ma non che travisano, voglio dire, sempre volutamente, anche perché poi diventava: tutto quello che c’era lo gestivo io, lo facevo io… io cercavo di fare riavere dei soldi ad un amico mio, paesano mio, Grigoli Giuseppe, ché glieli avevano rubati. Siccome io a questo di Ribera non lo conoscevo, mi sono rivolto a lui». «A lui chi», chiede il pm e Messina Denaro ribatte: «Provenzano». Anche sulle modalità di contatto con l’ex padrino di Cosa Nostra, è netto: «Sono un latitante e lui era pure latitante e quindi i canali li conosciamo, non c’è bisogno di essere affiliato. Se io cerco una persona normale, mi viene difficile, ma se cerco un latitante come me, ci troviamo». Il sistema era quello dei pizzini. La firma “Alessio”.

Da Svetonio alla storia antica

Il dialogo si sposta su “Svetonio”, soprannome utilizzato nelle famose lettere che Messina Denaro inviava ad Antonio Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano. Ebbene, Messina Denaro ammette che quello non fu un nome scelto a caso. «Vaccarino arrivò da ragazzo a Castelvetrano. Però siccome eravamo… lui mi conosceva, che io ero così, io mi ricordo che lui parlava con mio padre ed io da bambino e lui mi accarezzava i capelli, cose, cioè c’era un rapporto, diciamo, familiare».

Perché allora “Svetonio”? «Perché io sono appassionato di storia antica – riprende Messina Denaro – Ma era pure… dentro di me facevo un complimento, secondo me, però non… cioè non c’era un qualcosa, perché Svetonio, no, era che io sono appassionato dell’antica storia, da Roma a salire. Poi c’è un’altra cosa: mio padre era un mercante d’arte, quindi io… dove ci sono io, c’è Selinunte, mio padre non è che andava a scavare, però a Selinunte, a quell’epoca, c’erano mille persone e tutte e mille, pure le donne, scavavano di notte. Quelle che non scavavano di notte, scavavano di giorno, con la Sovrintendenza dello Stato, però cosa facevano in più? Ora magari non si può fare più, che quando con l’ascia vedevano uscire qualcosa, con il piede coprivano e poi la notte ci ritornavano a prendersele. In genere il 100% di queste cose li comprava mio padre, che poi venivano vendute in Svizzera e poi arrivavano, dalla Svizzera, dovunque: in Arabia, negli Emirati Arabi, in America; noi vedevamo cose che passavano da mio padre nei musei americani, non so come poi ci sono arrivati nei musei, però poi si partiva tutto dalla Svizzera».

L’agiatezza della famiglia Messina Denaro, secondo il racconto del boss, dunque, proverrebbe proprio da questi tesori antichi. Con i soldi di tali ritrovamenti e successive vendite, furono fatti investimenti: «In quelli che li abbiamo investiti – riprende Messina Denaro – molto ve lo siete presi – non lei – come Stato; il resto che non vi siete preso, un po’ era conservato per viverci noi, noi siamo una famiglia di circa 30 persone, la metà in carcere, io latitante, aerei, avvocati, ce ne volevano soldi, quindi se ne andavano».

La tecnica della caverna: «Mi avete preso per malattia»

Messina Denaro tira fuori tutta la sua sicurezza di colui che sa di averla fatta franca per decenni: «Allora ascolti – dice al procuratore De Lucia – non voglio fare né il superuomo e nemmeno arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate». Il boss sembra voler dire di avere un filo logico in questo suo ragionamento: mentre le forze dell’ordine avevano la tecnologia, lui aveva la «caverna». Che significa: «Telefonini non ne avevo, non avevo niente e non ne avevo per davvero, perché sapevo che appena nasceva un telefonino – anche che l’arresto non è stato per il telefonino, il telefonino lo usavo per 30 secondi – Procuratore io fissi: “Se mi metto con la modernità, vado a sbattere in un 3x2”, anche perché la nostra generazione non è che aveva il telefonino da giovane, quindi sapevamo vivere anche senza il telefonino». La risposta del procuratore è immediata: «Però lei i selfie se li faceva, le cose moderne le faceva…». E Messina Denaro è costretto a ripiegare: «No, le spiego: il selfie con il medico lo sa com’è nato? Perché poi uno deve pagare dazio – lui è stato uno di quelli che mi operò, il mio aiuto, al fegato; io ci andavo ogni mese, perché lui mi doveva visitare la ferita, me la curava lui, perché è una ferita abbastanza pesante, Ad un tratto mi alzo, ci salutiamo, perché avevamo un rapporto… ci davamo pure del tu, abbracci, bacio, eh, sto per girarmi e mi fa così: “Ce lo facciamo un selfie assieme?”, che dico “no”?». Messina Denaro afferma come il medico sapesse che lui era un imprenditore agricolo.

«Non posso fare alla Provenzano» e cita un proverbio arabo

Anche in merito all’ultimo periodo della sua latitanza, Messina Denaro abbozza una spiegazione. Dopo aver chiarito di sapere in tempo reale dove fossero collocate le telecamere a Campobello di Mazara, grazie ad amici che lo avvisavano della presenza di un maresciallo del Ros, il boss spiega di aver scoperto di soffrire di tumore al colon il 3 novembre 2020 e, contestualmente, prende di fatto le distanze del modo di agire dell’altro boss siciliano, Bernardo Provenzano: «Quando scoprii che avevo questo tumore e quindi mi restava poco da… però mi volevo curare, dissi “Vediamo”, mi sono messo a pensare ed ho seguito un adagio, un proverbio ebraico – ma l’ho seguito per davvero, però – che dice: “Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta”, allora che penso? “Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…”, perché qua mi gestivo meglio, nel mio ambiente, “… non posso fare alla Provenzano, dentro la casupola in campagna con la ricotta e la cicoria, con tutto il rispetto per la ricotta e la cicoria, ma io dovevo uscire, dovevo mettermi in mezzo alle persone, “… perché più mi nascondo, più sono arrestato”, mi spiego? Cioè ho piantato l’albero in mezzo alla foresta, che erano le persone. Da quel momento, io mi sono messo a fare la vita da libero».

Arriva poi l’affondo del boss, che ride: «Se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta. Però c’è una differenza: a Palermo io sono “Andrea”, perché a Palermo ho conosciuto decine e decine di persone, sono “Andrea”, mentre siamo assieme, che facciamo le infusioni; a Campobello no, perché io a Campobello posso essere Andrea Bonafede, che lo conoscono tutti? Allora mi sono creato un’altra identità: “Francesco”, giusto? Che abita a Palermo, ma che ho una mamma e due zie anziane, malate e ci sono badanti, sorelle, in modo… che avevo casa qua. E mi gestivo così: io giocavo a poker, mangiavo – quello di Campobello – mangiavo al ristorante, andavo a giocare…».

«Non ce l’avevo con Falcone»

Messina Denaro tenta di precisare un fatto: quell’audio in cui imprecava contro la commemorazione della strage di Capaci non era un audio contro Falcone. «Prima hanno giocato alla televisione, ché oscuravano la parte finale, perché volevano trasmettere il messaggio che io avevo offeso Falcone; poi, prima di sera, la toglievano e c’era solo “intercalare volgare”. Io non è che volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… guardi, io non sono credente, non ateo, sono agnostico […]. Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora se invece del giudice Falcone fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: così vi fate odiare pure dalla gente». Anche in questo caso la risposta del procuratore è laconica: «Certo, se magari la gente non faceva saltare un’autostrada 30 anni prima, non stavamo lì a discutere di queste cose…».

Giornalista
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