Gratteri: «In manette vertici del clan Mancuso». E ribadisce il suo appello: «Denunciate»

Il procuratore di Catanzaro nel corso della conferenza stampa per illustrare i dettagli dell'operazione che ha portato a quattro arresti: «Per troppo tempo non si è lavorato nella giusta direzione»

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di Giuseppe Mazzeo
12 aprile 2019
13:48

È uno dei delitti eccellenti degli anni 2000Compiuto dalla ‘ndrangheta contro la ‘ndrangheta. E su cui, a distanza di 16 anni, viene fatta definitivamente luce. Un caso risolto dalle Squadre mobili di Vibo Valentia e Catanzaro grazie ad un lavoro di capillare rilettura delle carte giudiziarie del passato operato dalla Procura antimafia di CatanzaroNicola Gratteri spiega i dettagli dell’operazione “Errore fatale” che ha spedito in carcere Cosmo Mancuso, Giuseppe Accorinti, Antonio Prenesti e Domenico Polito accusati dell’omicidio di Raffaele Fiamingo e del tentato omicidio di Francesco Mancuso; lo fa insieme al questore Andrea Grassi, al dirigente dello Sco Vincenzo Nicolì ed ai dirigenti delle Mobili Giorgio Grasso (Vibo) e Marco Chiacchiera (Catanzaro).

 


Per Gratteri si tratta di un’operazione compiuta da «una squadra costruita su un modello vincente, con uomini giusti, motivati», ed una sinergia che permette di «studiare un territorio in modo scientifico, non soltanto nell’attualità ma anche, come in questo caso, nel passato, analizzando e valorizzando contributi già presenti ed incrociandoli con le risultanze odierne». Gli arrestati, secondo il capo della Dda, sono «attori di primo piano di un clan che comanda il battito cardiaco di questo territorio, ma non solo; del Meridione e pure del Sud America: sono tra i più importanti ‘ndranghetisti della Calabria». Un messaggio, immancabile, è quello rivolto alla popolazione: «Se venite a conoscenza di fatti di mafia non esitate a raccontarcelo, anche dal più sperduto paese della regione. Io nel giro di mezz’ora vengo messo al corrente di tutto e do il giusto input affinché venga intrapreso il percorso adeguato. Il mio telefono è sempre acceso, e così deve essere per tutti i dirigenti e i magistrati». Ed una domanda diventa d’obbligo: perché tutti questi anni per risolvere questo delitto? «Probabilmente si è rimasti per troppo tempo bloccati per mancanza di coraggio, diciamo così, e di visione dei compiti di una Procura. Non basta fare il compitino, bisogna studiare, dare spunti, approfondire. Lo devono fare gli investigatori, lo devono fare le Procure».

 

Nicolì si sofferma sull’origine dell’indagine, nata nell’immediatezza dei fatti del 9 luglio 2003, che però è stata valorizzata soltanto in tempi recenti, grazie anche al lavoro di rilettura delle carte ed alle nuove dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. «Lanciamo un monito, che deve essere chiaro a tutti: ogni fatto, anche quelli vecchi, noi lo conosciamo. Non lo lasciamo morire nel nulla, cerchiamo di risolverlo. Oggi c’è un’aria nuova, anche i giovani poliziotti arrivano con un grande entusiasmo, perché ci si rende conto di lavorare in una squadra all’avanguardia». Chiacchiera e Grassoripercorrono l’agguato del 9 luglio, il tranello in cui sono state attratte le vittime, convinte di andare a riscuotere la mazzetta e trovatesi davanti ad una pioggia di fuoco, i successivi attimi concitati con Francesco Mancuso che si precipita a casa per depistare le indagini ma poi è costretto ad andare in ospedale per farsi medicare. “Tabacco” avrebbe pagato la “strafottenza” nei confronti della famiglia, perché «non adempiva agli ordini dello zio Cosmo, non versava soldi nella “bacinella” del clan, non contribuiva a pagare le spese per i detenuti». Una sorta di insubordinazione che, unita all’affronto di chiedere la mazzetta al fratello di un affiliato, avrebbe determinato la risposta sanguinosa del vecchio boss.

 

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