Omicidio Bruzzese: la vendetta 15 anni dopo il pentimento eccellente

Pochi dubbi da parte degli inquirenti: è un delitto di mafia delle cosche che hanno colpito nel giorno di Natale un uomo che peraltro era a Pesaro sotto la protezione dello Stato

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di Angela  Panzera
27 dicembre 2018
15:13
In foto Girolamo Bruzzese
In foto Girolamo Bruzzese

Omicidio aggravato dalle modalità mafiose: la Dda di ancona non ha dubbi. C’è la ‘ndrangheta dietro la morte di Marcello Bruzzese, il 51enne originario di Rizziconi freddato con 20 colpi di pistola la sera di Natale nel centro di  Pesaro. Fratello del pentito Girolamo Biagio, Marcello Biagio Bruzzese il 17 luglio del 1995 era scampato ad un agguato che aveva visto morire sia il genero Antonio Madafferi che il padre Domenico, il braccio destro del boss Teodoro Crea. Nell’attesa che le telecamere di via Bovio possano dare un volto ai due sicari, gli inquirenti sono a lavoro per ricostruire gli scenari criminali che hanno generato il delitto. La pista della vendetta per la scelta di Girolamo Bruzzese di pentirsi prende sempre più forma. Era il  20 ottobre del 2003 quando decise di collaborare con la Dda di Reggio Calabria, la stessa sera in cui tentò di uccidere Toro Crea. Il capocosca  nonostante i colpi sparati alla testa riuscì a salvarsi. I familiari lo portarono d’urgenza all’ospedale di Polistena, ma la situazione era talmente grave che venne trasportato ai “Riuniti” di Reggio dove fu sottoposto a un intervento chirurgico delicatissimo: i medici gli rimossero l’ogiva di un proiettile all’interno della scatola cranica. Nonostante la gravità della situazione agli il boss dirà che «l’ogiva rinvenuta all’interno del suo cranio era un pezzo di ferro di un bastone sul quale era caduto», dichiarazioni queste che, ovviamente portarono i giudici a indicarle come «omertose quanto paradossali». Neanche di fronte a questo episodio, che lo segnò a vita a causa dei gravi danni fisici che riportò, Toro Crea e la sua famiglia decisero mai di affidarsi allo Stato. Bruzzese invece, sì e l’agguato ai danni del capomafia di Rizziconi segnò un punto di non ritorno.  

Pentito perché non voleva fare «lo schiavo del male»

«Non volevo fare lo schiavo del male», così disse Bruzzese al pm antimafia Roberto di Palma il 17 luglio del 2007 durante la testimonianza all’udienza del processo “Devin” in cui erano alla sbarra Crea e i suoi due figli Giuseppe e Domenico; un processo questo, come molti altri, scaturito proprio dalle sue dichiarazioni. Bruzzese spiegò al Tribunale di Palmi che non voleva eseguire l’ordine impartito da Crea di ammazzare uno  figli di Saro Mammoliti, “reo” di aver intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia. Bruzzese non voleva partecipare al delitto e Crea non lo doveva sapere. «Se solo fosse trapelata una cosa del genere a Crea- dirà- non credo che io sarei qui a contestare questi fatti oggi». Ed ecco allora che decise di fare fuori il “mammasantissima” anche perché, secondo le sue dichiarazioni, Crea per commettere questo delitto avrebbe iniziato a cercare alleanze con le principali cosche della Piana «Albanese-Raso, Facchineri, Pesce, Mancuso, Piromalli, tutta un’alleanza-confermerà Bruzzese- che lui cercava con queste persone, perché l’interesse era comune». Bruzzese quindi,  voleva interrompere questo schema criminale e al pm Di Palma spiegherà i motivi che lo hanno portato a tendere l’agguato mortale: «per spezzare quella catena perché non volevo che la piana di Gioia Tauro fosse coinvolta in una spirale di faida(…)Uccidendo qualcuno dei Rugolo o dei Mammoliti-dirà- non è che i Mammoliti se ne stavano con le mani in tasca, dietro l’azione si sa ci può essere la reazione, per cui le cose erano un po’ pesanti, si erano attuati disegni criminosi anche contro le forze dell’ordine se fosse necessario». Adesso, a 13 anni di distanza dal suo pentimento questa spirale di sangue e violenza ha coinvolto per la seconda volta la sua famiglia e la regia, come nel’ 95, è ancora una volta della ‘ndrangheta.


Pentito anche per amore delle tre figlie

Ma non è solo questo il motivo che ha portato Bruzzese a collaborare con gli inquirenti reggini. Era latitante da oltre sette anni, si nascondeva tra le campagne di Castellace in quanto ritenuto il responsabile della morte di Francesco  Ascone, avvenuta 36 ore dopo la morte del padre de del genero. Un periodo della sua fuga lo passò proprio con il boss rizziconese e tutta la cosca Crea lo aiutò a darsi alla macchia. «Siamo stati sempre insieme, io sono cresciuto a fianco a Teodoro Crea», dirà in aula. Un legame mafioso che si era instaurato all’indomani della morte del padre da cui aveva ereditato la leadership all’interno della famiglia.  Bruzzese, però aveva la sua di famiglia e soprattutto aveva tre figlie e anche per loro deciderà di costituirsi alle forze dell’ordine. «È un percorso interno, che io volevo già costituirmi alla giustizia, affermerà Bruzzese al processo- ma non con l’intento di collaborare con la giustizia, questa è una cosa che è cominciata nel 2000, nei primi anni... cioè nei primi mesi del 2000, mentre mi trovavo latitante a Castellace, da un gesto... non da un gesto, da un fatto particolare: la piccina delle mie tre figlie mi venne a trovare con mio fratello e mia madre e gli altri miei figli, e la piccina a quell’epoca manifestò la volontà di volere stare con me, siccome io dormivo in un rifugio ricavato in alcune sterpaglie, in un dirupo nel territorio di Castellace, non potevo tenere certamente mia figlia con me, quello mi sembra che non era possibile, umanamente possibile, da lì cominciai a capire determinate cose, praticamente poi, quando ci fu questa collaborazione, diciamo, di Mammoliti poi si manifestò un lato di Teodoro Crea che io conoscevo e non conoscevo». Il Dado è tratto. L’unica opzione per potersi salvare era appunto collaborare.

Collaborazione qualificata

Subito dopo il 2003 sono tanti i processi in cui sono confluite le dichiarazioni messe a verbale con l’Antimafia dello Stretto, tante le operazioni scattate anche grazie al suo apporto da collaboratore. Bruzzese non riferirà solo sugli assetti della ‘ndrina Crea, ma anche dell’ingerenza all’interno dell’amministrazione comunale rizziconese e le pressioni sulla politica.  «Bruzzese- scrivevano gli inquirenti nelle carte processuali dell’inchiesta “Toro”- sapeva  che una volta armata la sua mano contro chi lo aveva foraggiato e protetto anche durante la latitanza l’unica possibilità di sopravvivere era affidarsi allo Stato, alla Giustizia e che ove dovessero accertarsi falsità e mendacio nelle sue dichiarazioni Bruzzese rimarrebbe solo, esposto alla ritorsione di chi  ha rischiato di morire per mano sua». La sua attendibilità quale collaboratore, però fu valutata «particolarmente qualificata» e i Crea negli anni si sono visti infliggere decine e decine di anni di carcere e il loro patrimonio è stato in larga parte prima sequestrato e poi confiscato. Ed è per questo che la Dda di Ancona ritiene che dietro l’omicidio di Marcello Bruzzese ci sia la matrice mafiosa: il conto della ‘ndrangheta che non perdona defezioni e tradimenti.

 

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