Agguato agli amanti a Gallico, il pentito: «Non volevamo uccidere ma solo rubare un'auto»

VIDEO | Parla il collaboratore di giustizia Mario Chindemi che di quella tragica notte, in cui morì Fortunata Fortugno, appartata insieme a Demetrio Logiudice (per gli investigatori vero obiettivo dei killer), fornisce una nuova chiave di lettura indicando anche nuovi complici. Una versione che non convince però gli inquirenti. Un tentativo di coprire il nipote Paolo?

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di Angela  Panzera
22 giugno 2019
07:13

L’agguato a Demetrio Logiudice, alias “Mimmu u boi”, e l’omicidio dell’innocente Fortunata Fortugno, non sarebbero stati una vendetta mafiosa per il predominio del quartiere Gallico, ma  il tentativo di rapina di un’auto sfociato nel sangue. A fornire una nuova chiave di lettura del tragico episodio, che il 16 marzo del 2018 scosse l’intera città di Reggio Calabria, è stato il collaboratore di giustizia Mario Chindemi. Uomo di "punta" dell'omonimo gruppo mafioso che nel dicembre scorso, dopo cinque mesi dal suo arresto nell’ambito dell’inchiesta “De Bello Gallico”, ha deciso di “vuotare il sacco” e collaborare con i pm Walter Ignazitto e Diego Capece Minutolo.

 


I sostituti procuratori, che insieme alla sezione Omicidi della Squadra mobile reggina, hanno compiuto l’indagine sul tentativo di omicidio di uno degli esponenti più influenti della cosca Logiudice, ritenuto vicino ai Tegano di Archi, e sulla morte della sua amante che ha perso la vita pur essendo estranea a qualsiasi contesto criminale e mafioso. Chindemi, però dà una motivazione  diversa rispetto a quanto riscostruito dall’Antimafia dello Stretto che indicava nella lotta intestina, tra gruppi spregiudicati, per il predominio sul quartiere alla periferia nord della città, la matrice dell’azione di fuoco. Un'azione di fuoco scattata a distanza di un mese dell’omicidio di Pasquale Chindemi, fratello di Mario e padre di Paolo che fino a poco tempo fa era l’unico ad essere accusato della morte della Fortugno e del tentativo di uccisione di “U boi”. Adesso a risponderne sono in due: zio e nipote. Mario Chindemi infatti, si è autoaccusato di questi fatti e il gip distrettuale, Pasquale Laganà, ha emesso nei suoi confronti un’altra ordinanza di custodia cautelare in carcere. Mario Chindemi prima di manifestare la volontà di collaborare con la giustizia rispondeva “solo” di associazione mafiosa adesso invece, come sottolineato dal gip, «sin dal primo interrogatorio Chindemi ammetteva di essere stato presente sul luogo dell’omicidio e di aver preso parte a quella azione».

L’agguato agli amanti

Prima delle sue dichiarazioni, la Squadra Mobile- anche grazie agli accertamenti compiuti dalla Polizia Scientifica- aveva accertato che apparteneva «a Mario Chindemi l'unica impronta rinvenuta sulla macchina delle vittime». Chindemi si autoaccusa, ma ne traccia un contesto diverso e soprattutto delinea nuove responsabilità che, per adesso, non risultano essere confermate dalle inchieste giudiziarie. È il 19 febbraio. Ai pm che lo interrogano Chindemi dirà che quella sera «era Paolo (Chindemi ndr) che conduceva l’autovettura ed è lui che aveva deciso di andare nella fiumara. Ci siamo portati nella fiumara in macchina: eravamo io, mio nipote Paolo, Piero Pellicanò e Santo Pellegrino». Queste ultime due persone, però non risultano essere accusate di omicidio è Chindemi a “tirarle in ballo”.

 

Il pentito è un fiume in piena e agli inquirenti racconta che «l’intenzione era quella di rubare l’autovettura Wolkswagen. Il giorno dell’omicidio della Fortugno vennero a casa mia Santino e Paolo per dirmi che dovevamo procurarci una macchina. Santo Pellegrino con una sua improvvida iniziativa sparò due colpi di pistola con una calibro 38, io per il nervosismo ho sparato altri due colpi con la calibro sette che era in mio possesso. Ho sparato quando l’autovettura era già in movimento- racconta.  L’ho fatto solo per nervosismo e non perché volessi uccidere. Solo il giorno successivo abbiamo capito che una donna era deceduta. L’abbiamo letto su internet». Questa donna era Fortunata Fortugno. Sarà lei stessa, ancora con la testa appoggiata al petto di Logiudice, in un tenero atto di amore, a dire: «Demetrio, si sono fermati, sono scesi dalla macchina». E poco dopo spirerà con il corpo crivellato di colpi.

Le fibrillazioni mafiose su Gallico e la strategia pianificata

Ma perché ai Chindemi serviva rubare un’auto? È lo stesso collaboratore a spiegarlo. Si erano create due frange: da un lato il gruppo Chindemi e dall’altro quello dei Callea. Entrambi volevano comandare, ma i disaccordi avevano attuato una vera e propria guerra sull’intero quartiere, diventato negli ultimi dieci "teatro" di estorsioni, omicidi, attentati, rapine e agguati mafiosi di vario genere. I Callea erano i “loro” nemici e quell’auto, su cui poi a bordo sono stati trovati Logiudice e la Fortugno, sarebbe servita per vendicarsi. Secondo il racconto di Mario Chindemi l’agguato, consumato la sera del 18 marzo, «avrebbe dovuto essere una rapina finalizzata all’acquisizione di un’autovettura da impiegare in successivi attentati-uno dei quali ai danni di un esponente di rilievo del “locale” di Gallico, Nuccio Callea- funzionali alle strategie criminali del gruppo ‘ndranghetistico guidato da Paolo Chindemi». Fatti e circostanze queste che non convincono né la Procura né il gip il quale, sottolinea nell’ordinanza di custodia cautelare- che «la versione offerta dal collaboratore appare, allo stato poco plausibile, in quanto non collimante con alcuni elementi di indagine dotati di elevata carica indiziante».

Tentativo di coprire il nipote?

Uno degli elementi che non convince l’accusa è quello relativo alle responsabilità attribuite al giovane Paolo Chindemi il quale intercettato durante le indagini, dirà chiaro e tondo, «non sospettano, però io ho fatto un omicidio». Parole che alla Dda non hanno lasciato spazio ad interpretazione a cui, però lo zio Mario tenta di dare una spiegazione. «Quando mio nipote Paolo- affermerà a verbale il “pentito”- diceva di aver fatto un omicidio si riferiva a quello della Fortugno. Parlava in prima persona non perché avesse sparato lui, ma solo perché- continua- si sentiva responsabile di quella azione, in quanto eseguito nell’ambito della strategia pianificata dopo la morte del padre. Probabilmente se ne stava assumendo la colpa».

 

Per il gip invece, non ci sono dubbi: Paolo Chindemi con questa frase se ne stava assumendo la diretta responsabilità. Il soggetto delle parole “non sospettano” sarebbero i Tegano, né i Callea né le forze dell’ordine. C’è poi un’altra intercettazione su cui la Procura fa basare l’accusa di omicidio per Paolo Chindemi. Il 2 giugno dello scorso anno il giovane rampollo, poco dopo essere transitato con l’auto, insieme anche a Santo Pellegrino, nei pressi della vita Torrente Gallico, il luogo dove è avvenuto l’omicidio, dirà: «si stava girando a guardare verso dietro», Pellegrino risponderà: «con chi era era..ha pagato per lui (…)quando gli ha fatto..gli ha fatto bam…per lei non l’ha distrutto». Un breve scambio di battute in cui si evince che l’oggetto della conversazione fosse proprio l’omicidio di Fortunata Fortugno. Per il gip in queste poche frase «appare evidente la conoscenza da parte di Paolo Chindemi dei particolari dell’azione delittuosa che ha determinato la morte della Fortugno». Ed inoltre, riscontrano quanto dichiarato dallo stesso Logiudice in merito alle ultime parole pronunciate dalla donna la quale, dopo essersi girata, ha visto con i suoi occhi delle persone scendere da un’auto e avvicinarsi a loro. Le frasi «ha pagato per lui» e «quando gli ha fatto bam…per lei non l’ha distrutto» lasciano proprio intendere che il gruppo «stava certamente commentando- scrive il gip- l’agguato perpetrato ai danni della coppia Logiudice-Fortugno» ed infine confermano «che il vero ed unico bersaglio dell’azione del killer (Paolo Chindemi), chiosa il giudice, era proprio Demetrio Logiudice e quando lo stesso ha sparato (ha fatto bam) lei era in posizione tale da fare scudo sul bersaglio Logiudice e di conseguenza, proprio a causa della Fortugno, non lo ha ucciso (per lei non l’ha distrutto). Un ragionamento che non fa una piega, ma che ora il pentito Mario Chindemi tenta di smontare “declassandolo” ad una “semplice” rapina finita male.

Dubbi anche sui complici e sull’arma

Sin dalle prime dichiarazioni rese ai pm Mario Chindemi ha ammesso di essere stato presente il giorno dell’omicidio della donna in «compagnia del nipote Paolo Chindemi, di Santo Pellegrino e di “compare Pietro” ossia Pietro Pellicanò». Ma a sparare, sempre secondo il collaboratore furono lui e Pellegrino, su cui però la Dda non ha mai mosso l’accusa di omicidio. Un racconto che non regge per la Dda poiché Chindemi sostiene che ha bordo dell’Audi A3 del nipote fossero in quattro mentre la Squadra Mobile ha appurato, dalle immagini delle telecamere della videosorveglianza sparpagliate nei pressi del Torrente Gallico, che c’erano solo due persone. Due sagome che per li investigatori appartengono a Mario e Paolo Chindemi.

 

Le discordanze poi, riguardano anche le presunte armi utilizzate per compiere il delitto. In sede di interrogatorio il collaboratore ha affermato che sarebbero state modificate poco dopo l’omicidio. In particolare ha dichiarato che «qualche giorno dopo l’uccisione della Fortugno, io e Santino Pellegrino abbiamo modificato con un trapano la canna delle pistole utilizzate in occasione dell’omicidio. Inizialmente avevamo pensato di disfarci delle pistole. Poi siccome- ha dichiarato- non avevamo soldi per compare altre armi, abbiamo deciso di modificare la canna così da evitare che si risalisse a quell’evento. Tramite tale Riccardo di Archi, che abita ad Arghillà, zio di Santino, fratello di sua madre, abbiamo proceduto alla modifica. Ricordo che era passato circa un mese ed era domenica. Ribadisco che a sparare i colpi mortali alla Fortugno era stato Santino Pellegrino. Sebbene fossi convinto che Santino Pellegrino era coinvolto nell’omicidio di mio fratello Pasquale, mi sono attivato per modificare l’arma con cui aveva sparato perché in quel momento storico faceva parte del nostro gruppo».

 

Su questo punto il gip avanza ulteriori dubbi. «Tali dichiarazioni tuttavia-è scritto nell’ordinanza di custodia cautelare-non sembrano essere in linea con il contenuto delle intercettazioni ambientali dell’otto e del 26 giugno del 2018 quando è lo stesso Mario Chindemi a sollecitare il nipote Paolo, in maniera anche abbastanza esplicita e manifestando un certa preoccupazione, a disfarsi di un’arma utilizzata in un grave fatto delittuoso». Proprio in quella di giugno lo stesso “pentito” dirà al nipote «toglitela quella pistola che hai sparato». Se le armi si possono riadattare, le intercettazioni no. Chindemi ha riferito infatti, che almeno un mese prima l’aveva fatta modificare, in modo da depistare gli inquirenti, e non spiega l’invito rivolto al nipote di disfarsene e soprattutto le preoccupazioni mostrate. Dati che gli stessi pm gli hanno contestato e che Chindemi cerca di spiegare in questo senso: «il riferimento ( durante la conversazione intercettata ndr) era certamente alla pistola con cui è stata la Fortugno. Non volevo, però dire che a sparare era stato mio nipote Paolo, bensì che l’arma era utilizzata per l’omicidio (:..) non posso escludere che mio nipote Paolo e Santino Pellegrino avessero intenzioni diverse rispetto a quella, prospettata a me e a Piero Pellicanò , di rubare un’autovettura». Adesso non lo esclude, ma continua a sostenere che quella sera l’agguato non è stato organizzato per eliminare Logiudice, ma per rapinare un’ignara coppia appartata della propria automobile.

 

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