Il maxiprocesso alla ’ndrangheta

Rinascita Scott, Arena racconta la Vibo mafiosa e traccia il profilo dei sodali: «Capaci di sparare per fesserie»

Continuano i riconoscimenti fotografici del collaboratore di giustizia al maxiprocesso: usura, estorsioni, azioni di fuoco, le nuove dinamiche mafiose della città

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di Pietro Comito
3 agosto 2021
16:34

Continuano i riconoscimenti delle effigi fotografiche da parte del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena al maxiprocesso Rinascita Scott. Rispondendo al pm Andrea Buzzelli, Arena riconosce Domenico Moscato, che «praticava l’usura assieme a Vincenzo Barba e aveva interessi nel circolo il Diamante che era una sorta di bisca». A seguire riconosce l’imputato Daniele Lagrotteria, indicato dal collaboratore come colui che avrebbe preso parte alla sparatoria consumata al quartiere Affaccio contro uno dei Pugliese Cassarola. «So che faceva usura all’imprenditore Gaetano Staropoli – spiega il dichiarante – e con il fratello Mirko possedeva delle armi». E ancora, Arena riconosce Orazio Lo Bianco, imprenditore nel settore delle onoranze funebri, che era in società con Rosario Pugliese: «Avevano interessi al cimitero, so che svuotavano le cappelle e le rivendevano. Ultimamente era interessato anche agli idrocarburi. Sapevano che aveva un silos dove teneva la benzina, ma non sapevamo dove fosse. Francesco Antonio Pardea lo voleva incendiare, ma non lo individuammo mai. Lo Bianco era molto addentrato nell’ospedale di Vibo e con medici compiacenti altera le diagnosi per fare truffe sugli incidenti».

Ulteriore foto, quella di Michele Macrì che «spacciava» e che era stato coinvolto nello scontro e nel successivo ferimento di Loris Palmisano. Poi  Leoluca Lo Bianco detto il Rozzo: «È un soggetto azionista, ma falsissimo e onestamente non avevamo grande rispetto di lui. È stato mastro di buon ordine quando eravamo con i Lo Bianco-Barba. Lui si lamentò perché avevamo formato un nuovo gruppo senza rapportarci con loro. È stato in carcere perché accusato, con il cugino Luca Lo Bianco detto ‘u Ndanu, dell’omicidio di un certo Apa. Il Rozzo fu assolto e ‘u Ndanu ha pagato quell’omicidio, ma in realtà fu il Rozzo a commettere il delitto».


L’impegno più gravoso, per il collaboratore di giustizia, giunge alla identificazione di Domenico “Mommo” Macrì: «È un soggetto pericolosissimo, perché può compiere un’azione di fuoco anche per una fesseria. Ha la dote del trequartino, ricevuta durante la detenzione a Laureana di Borrello. È stato attivissimo in tutti i campi, dalle estorsioni alle azioni di fuoco». Svezzato al crimine dal cugino Andrea Mantella, arrestato, processato, condannato e carcerato per l’operazione The Goodfellas, nel 2016, dice Arena, «cavalcò le nostre idee di distacco dai Lo Bianco-Barba, anzi, le rese ancor più focose. Lui fu affiliato intorno al 2008, negli anni in cui fu mandato da Nicola Manco per un’estorsione all’imprenditore Chiaromonte, che denunciò e lo fece arrestare assieme a Francesco Antonio Pardea». Le primissime azioni criminali, secondo il collaboratore, però Macrì le commise con Giuseppe Pugliese Carchedi, cugino del dichiarante, che poi fu ucciso dal clan dei Piscopisani.

Spiega Arena: «Quando uscì dal carcere, Mommo Macrì puntò per primo Gianfranco Ferrante, a cui chiese 5.000 euro, ritenendo di poter avere lo stesso trattamento che Ferrante riservava a Mantella. Ma Ferrante non gli diede i soldi e, invece di andare direttamente dai Mancuso, venne ad avvisarci. Così andammo da suo padre, lo convocammo, fece un po’ di storie e per un po’ si calmò, ma poi iniziò a pretendere da tutti soldi, non guardava nulla». Macrì si sarebbe addentrato anche nel narcotraffico, stringendo rapporti in particolare con Leone Soriano: «Ad un certo punto, iniziò a prendersela con i Pugliese Cassarola, ma lo fece nel modo peggiore, iniziando con fesserie, guardatine storte, li investiva con la macchina. Un giorno mi disse “giuro che ti faccio prendere l’ergastolo”, “dobbiamo fare una guerra”. E quando sparò al piede al nipote di Rosario Pugliese, Nazzareno, la cosa divenne palese. Io lo dissi a suo padre, non eravamo contenti perché noi avevamo avuto cose serie, morti, che significa che vai a sparare al piede a quel ragazzo? Così poi ci fu la reazione di Rosario Pugliese e noi ci ritrovammo tutti a dover camminare armati. Una volta ha incendiato anche una casa al cognato di Rosario Pugliese».

Macrì, secondo il pentito, sarebbe stato anche il vero mandante di una macabra intimidazione ad un negozio: «Fu appeso davanti alla vetrina un cucciolo di cane. Lui negò, attribuendo la colpa ai Lo Bianco».  E poi: «Lui c’è stato sempre, sempre, in tutte le azioni del gruppo. Fu lui il mandante dell’agguato al custode del cimitero… Lui prima si legò a Leone Soriano, successivamente, tramite Saverio Razionale, si legò a Peppone Accorinti. Su Macrì potremmo parlare fino a domani mattina».

Giornalista
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