«Qui continuiamo a morire», le testimonianze dei migranti dalla baraccopoli

VIDEO | I migranti che hanno assistito al rogo mortale nel campo di San Ferdinando raccontano come sono andate le cose. Intanto la Flai Cgil denuncia: «Con i container non sarebbe successo»

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di Francesco Altomonte
16 febbraio 2019
21:20

Il fuoco continua a mietere vittime innocenti nella baraccopoli di San Ferdinando. Non si sono ancora placate le polemiche per la morte di Surawa Jaiteh, avvenuta lo scorso 1° dicembre, che un nuovo incendio ha ucciso un altro ragazzo africano.
Il suo nome era Moussa Ba, 29enne del Senegal. La sua baracca si è incendiata intorno alle 23.30 di ieri sera e in pochi minuti il fuoco ha divorato una ventina di capanne nella quale stavano dormendo altri migranti. Solo per puro caso l’imponente rogo non ha causato una strage. Un ragazzo che viveva in una baracca vicina a quella nella quale stava dormendo Moussa Ba, infatti, ha visto per caso il fuoco e ha lanciato l’allarme.
«Ero uscito dalla mia tenda – ha spiegato – e mi sono accorto delle fiamme. Ancora non erano molto alte. Mi sono messo a gridare e molti altri hanno lasciato le loro baracche, ma dopo pochi minuti l’incendio aveva già bruciato tutte le capanne circostanti».
Solo dopo che i vigili del fuoco hanno domato l’incendio è stato ritrovato il cadavere carbonizzato di Moussa Ba. Alle prime ore del mattino, la rabbia all’interno del campo dell’area industriale di San Ferdinando è palpabile. Gli incendi si susseguono dall’inizio dell’inverno e l’impossibilità di avere documenti e di poter lavorare sta esacerbando gli animi di chi è costretto a vivere in condizioni disumane.
«Sono in Italia da quattro anni – ha dichiarato un ragazzo del Senegal - ma non mi fanno i documenti e non posso lavorare. Intanto qui continuiamo a morire». «Dalla Francia e dalla Germania mi hanno mandato via – ha dichiarato un altro lavoratore – ora sono qui da tre anni e non ho documenti. Cosa devo fare?».

 


Moussa Ba, secondo quanto riferito dalla questura di Reggio Calabria, si trovava al campo da metà gennaio, quando era stato scarcerato dal gip del Tribunale di Palmi. Gli agenti del commissariato di Gioia Tauro lo avevano arrestato il 31 dicembre scorso su delega della squadra mobile di Pisa. Nella città toscana, il giovane era stato fermato per spaccio di hashish e gli era stato imposto il divieto di dimora. Da lì la decisione di vivere nella baraccopoli, una scelta che gli è costata la vita. L’ennesima tragedia, quella di ieri, che ripropone il problema dello smantellamento dei campi e dell’accoglienza diffusa dei migranti. Una soluzione ideale, ma ancora lontana nell’attuazione. La Flai-Cgil aveva già proposto una soluzione transitoria in attesa della dislocazione degli stagionali nei centri della piana.
«La nostra idea dei modelli abitativi, dei container – ha dichiarato Rocco Borgese, segretario della Flai-Cgil – non voleva dire ghettizzare i ragazzi africani, ma un momento di passaggio prima dello smantellamento. Una scelta che avrebbe salvato la vita di Moussa».

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