Il suo bimbo salvo dal fuoco della mafia. La storia di Stefania, una madre coraggiosa

VIDEO | Ai nostri microfoni la madre del piccolo Antonino Laganà, ferito alla testa a soli 3 anni da un proiettile nel giugno 2008 a Melito Porto Salvo. Da lì l’inizio di un incubo. I danni per il bambino sono stati permanenti ma la sua famiglia non ha mai smesso di lottare per ottenere verità e giustizia

di Angela  Panzera
5 marzo 2019
07:02

«Di fronte al dolore di mio figlio non potevo stare zitta e non starò mai zitta. La vittima è mio figlio; chi ha sparato è solo un criminale senza cuore e senza scrupoli». Stefania Gurnari non ha mai perso né la sua grinta né il suo coraggio. La madre del piccolo Antonino Laganà, ferito alla testa a soli 3 anni da un proiettile il 6 giugno del 2008 a Melito Porto Salvo, non ha mai smesso di lottare. C’erano 500 persone nel pizzale della chiesa cittadina perché a breve si sarebbe dovuta svolgere la festa di fine anno scolastico; un killer a bordo di uno scooter ha iniziato a fare fuoco tra la folla. Sono passati 11 anni da quel tragico pomeriggio. Per Stefania e la sua famiglia è stato l’inizio di un incubo; un incubo da cui Antonino è riuscito a uscire, ma i cui segni saranno sempre indelebili sul suo corpo. «Mio figlio doveva divertirsi e giocare quel pomeriggio- ci racconta la donna. Non era lui nel posto sbagliato e al momento sbagliato. Lui era nel posto giusto; chi era trovato nel posto sbagliato è chi ha deciso di sparare in una piazza piena di persone e di bambini. Poteva succedere una strage. Adesso che sono passati tanti anni dico che è stato colpito “solo” lui, ma quel giorno il mondo ci è caduto addosso».

 


Antonino è stato per mesi in ospedale dove è stato sottoposto a numerosi interventi chirurgici, uno più delicato dell’altro, e ancora un frammento di quel proiettile è nel suo corpo, precisamente nella carotide, e non si può estrarre:  è un segno che si porterà dietro tutta la vita e che incessante gli ricorderà di essere una vittima innocente della criminalità. I danni per lui sono stati seri e alcuni sono permanenti. Mentre il piccolo lottava tra la vita e la morte la Procura di Reggio Calabria - grazie alle indagini compiute dal pm Giovanni Musarò (adesso in forza alla Dda di Roma) e dai Carabinieri della compagnia melitese, allora diretta dal capitano Onofrio Panebianco- ha individuato  i due mandanti dell’agguato. Sono Leonardo e Antonino Foti, zio e nipote, condannati in cassazione a 18 e 17 anni di reclusione. Volevano uccidere Francesco Borrello, con cui la loro famiglia aveva un debito di sangue, e l’uomo doveva morire davanti a tutti. I Laganà si sono sempre e solo affidati alla giustizia, senza mai indietreggiare. «Che senso  avrebbe avuto farci giustizia da soli?, ci dice Stefania. Sangue con altro sangue? E cosa avrei consegnato ai miei figli, alla mia famiglia? Vendetta. La vendetta non porta a nulla. Ho chiesto solo di avere verità e giustizia per mio figlio e ciò me lo poteva dare solo un tribunale, solo una sentenza. E la giustizia è arrivata». Stefania Gurnari ha tramutato il dolore in impegno civile.

 

È entrata a far parte dell’associazione “Libera-nomi e numeri contro le mafie” dove cura il gruppo “Memoria” per la provincia reggina. Porta nelle scuole, e nella società, la sua testimonianza di madre di vittima della ‘ndrangheta, uno “status” riconosciuto al piccolo Antonino nonostante i reati contestati agli imputati non era aggravati dalle modalità mafiose. Ma le modalità mafiose sono state riconosciute per una serie di aspetti. C’erano 500 persone quel maledetto pomeriggio e solo Stefania riuscì a fornire un identikit del killer. La comunità melitese si trincerà dietro il silenzio e l’omertà. Oltre a questo anche le modalità dell’agguato erano quelle proprie della criminalità organizzata: l’esecuzione doveva essere compiuta davanti agli occhi del popolo. Dalle parole di Stefania non trapela mai odio ma, il dolore è ancora così forte che la donna non riesce a perdonare i due imputati. «Io mi reputo una buona cristiana, ma non riesco a perdonarli. È troppo grave quello che hanno fatto. Però chiedo a nostro Signore di farlo. Loro poi, si sono sempre professati innocenti e anzi hanno mal digerito che io mi sia sempre presentata a tutte le udienze di ogni grado di giudizio anzi con gli occhi mi sfidavano, ma io non mai ceduto né abbassato lo sguardo. E mai lo abbasserò».

 

Non è stato facile per lei e la sua famiglia continuare a vivere a Melito Porto Salvo. In tutti questi anni la donna e la sua famiglia sono stati un vero “simbolo” di legalità sul territorio; un territorio che resta comunque permeato dalla mentalità mafiosa e dall’assoggettamento della cosca Iamonte. «Io amo Melito. È il paese dove io e mio marito viviamo insieme ai nostri tre figli; non ho mai avuto alcuna intenzione di andar via. Chi doveva andare via non ero di certo io quindi non ho mai avuto intenzione di farlo. Non sono le vittime a dover scappare». Antonino adesso ha 14 anni e frequenta la terza media. Nonostante le gravi ferite riportate e l’infanzia rubata, grazie all’affetto dei suoi genitori, Stefania e Carmelo, e dei suoi due fratelli, Francesco e Benedetta, non ha mai perso il suo sorriso e la sua vivacità.

 

«Mio figlio è diventato un piccolo ometto. È come se quel sei giugno lui fosse rinato. Ha dovuto imparare nuovamente a fare tutto: a camminare, a mangiare a giocare. E poi è stato costretto a vivere anche con la nostra apprensione continua. Il risarcimento mai potrà davvero essere tale per quello che gli è stato fatto. Si porterà sempre dietro questa tragedia, una tragedia per cui ha dovuto pagare delle conseguenze troppo alte e ingiuste. Ma il suo straordinario sorriso non gliel’hanno mai tolto ed è per questo che gli auguro di non perderlo mai».

 

Questo non è l’unico augurio che Stefania Gurnari fa. Il suo pensiero e le sue emozioni di madre, di donna, sono proprio rivolte alle tante donne calabresi costrette a vivere in situazioni di sopraffazione e violenza. «A loro dico di avere coraggio- ha concluso- il coraggio di dire “no”. I soldi, il benessere che magari i loro mariti portano a casa possono fare piacere, ma sono di breve durata. Perché poi dovranno fare i conti con una vita in cui figli e mariti saranno in carcere e ciò è una condanna anche per loro. Ed è per questo che dico loro di dire questo “no” con forza perché salveranno non solo loro stesse, ma anche i loro figli da un destino già segnato e se la nostra terrà riuscirà davvero a cambiare sarà per il loro coraggio e a loro forza di essere libere».  

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