L’intervista

Trentadue anni fa la strage di Capaci, il fratello di Rocco Dicillo che morì insieme a Falcone: «Non fu solo mafia, vogliamo la verità»

L'agente di scorta perse la vita nell’attentato che costò la vita al giudice Giovanni Falcone. Dal ricordo lucido di quei momenti di sgomento, alle tante delusioni avute in questi anni: «Basta con l’antimafia delle parole e delle cerimonie, servono esempi»

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di Consolato Minniti
23 maggio 2024
06:15
I fratelli Rocco e Michele Dicillo
I fratelli Rocco e Michele Dicillo

«È evidente che la verità su queste stragi non si conosce. Ho la percezione, pur non essendo un tecnico, che non ci sia solo mafia. Non lo dico io, ma lo dicono dei giudici. C’è tanta delusione nei parenti delle vittime per come viene fatta una certa antimafia. Noi abbiamo cercato sempre la sobrietà, ma il rischio è che la memoria di Rocco vada dispersa. Egoisticamente, da fratello, penso che abbia sbagliato a dare la sua vita per lo Stato».

Michele Dicillo è oggi un medico ormai 60enne. La sua voce lascia trasparire una profonda delusione, un disincanto che si mischia con la consapevolezza di chi sa di aver perso un pezzo della propria anima, strappata via con la violenza del tritolo che 32 anni fa devastò l’autostrada siciliana all’altezza dello svincolo di Capaci ed in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie, anch’ella giudice Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro.


Michele, che ricordo ha di quel sabato pomeriggio?
«I ricordi, nonostante siano passati 34 anni, sono abbastanza nitidi. Svolgevo un tirocinio, in quanto studente di Medicina, e quindi approfittavo del sabato pomeriggio per andare in uno studio medico. Tornando, intorno alle 19.30, vidi tutta la strada di casa mia, che era anche quella di Rocco, occupata interamente da auto della polizia e dei carabinieri. Ebbi subito la sensazione che qualcosa fosse successo a Rocco. Poi entrai in casa e vidi i miei genitori che piangevano disperati. Però si parlava ancora di ferimento. Non so se non si volesse dare certezza o se quella certezza mancasse veramente. Non vi erano i cellulari, o quanto meno noi non li avevamo, e quindi arrivavano delle telefonate sul telefono fisso. Tuttavia vorrei precisare che nell’immediatezza della strage, in realtà, per come è stata poi appurata la dinamica, è accaduto che dopo l’esplosione, la prima auto non si vide più. I colleghi sopravvissuti della terza auto, quella che stava dietro a quella del giudice Falcone, si augurarono che fossero passati oltre il cratere dell’esplosione. In realtà non fu così, l’auto venne sbalzata dall’altra parte dell’autostrada, attraversando quattro corsie e oltre. Dunque, non si capiva che fine avesse fatto quest’auto e chi fosse morto o sopravvissuto. Passammo queste prime ore in angosciante incertezza. Poi, in serata, il quadro divenne chiaro. Partimmo subito con un aereo militare per Palermo».

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Eppure Rocco, quel sabato pomeriggio, non doveva neppure essere di servizio. Cosa accadde?
È proprio così. Rocco non era di servizio quel sabato pomeriggio. È stato chiamato per coprire l’assenza di un suo collega. In quell’occasione si assentò più di uno. Non so, forse c’erano delle voci in giro, se si sapeva qualcosa, questo non so dirlo. Rocco, come era suo solito fare, non si è tirato indietro. Lavorava in maniera costante. Non solo. A volte il destino è strano: so che all’aeroporto Rocco, in realtà, non era stato destinato alla prima auto, la apripista, non so per quale motivo. So che hanno anche litigato tra loro gli agenti. Ed è un altro caso sfortunato, perché Rocco era destinato all’auto posteriore, ma alla fine andò nella prima auto. E per una serie di coincidenze, come accade in questi casi, sono morti.

Come nasce la scelta di Rocco di diventare un agente di scorta? Quello era un periodo nel quale occorreva davvero coraggio per compiere un percorso simile.
Questo è vero. Posso dire che Rocco aveva tutte le caratteristiche per fare quel lavoro. Ha fatto un corso per fare l’agente di scorta ed è anche vero che quel periodo, negli anni ’80, era molto critico per la città di Palermo dove vi era un morto di mafia ogni due o tre giorni. In particolare, il giudice Falcone era la personalità a più alto rischio di attentato. Lui selezionava anche chi doveva far parte della sua scorta. Li scoraggiava, in un certo senso, per tastare la reale motivazione di questi ragazzi. Me lo ha raccontato mio fratello. Falcone diceva: “Io ormai sono definito un morto che cammina. Siete sicuri di voler stare vicino ad un morto che cammina?”. Rocco è nato per fare quel lavoro e ha scelto di proteggere il giudice Falcone che rappresentava una speranza di legalità in una città così pericolosa e degradata. Si può dire che eravamo più preoccupati noi di Rocco, perché noi percepivamo il pericolo. Lui pure, ma la viveva tranquillamente, si sentiva soddisfatto. Posso dire che, per come lo vedevamo noi, lui ha passato uno dei più bei periodi della sua vita facendo questo lavoro. Rocco era assolutamente motivato, conscio mi parlava anche del fatto che erano poco protetti: “Noi abbiamo un’auto blindata e possiamo difenderci. Siamo più bravi di loro in un eventuale conflitto a fuoco”, diceva. Ma è chiaro che di fronte alla volontà di mettere in atto un attentato così violento e organizzato si rendevano conto che erano poco protetti e questa è stata una debolezza da parte dello Stato, perché avevano carenza di mezzi e organizzazione. Lui, però, nonostante tutto mi parlava in maniera entusiasta di questo giudice».

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Probabilmente una scelta simile non matura per caso, ma grazie a precisi valori trasmessi dalla famiglia. Non crede?
«Esatto, sono assolutamente d’accordo. Ci ho riflettuto molto su questo. Sono sicuro che tutto parte dalla famiglia. Mi spiego: noi avevamo una azienda agricola dove c’era tanto da fare. Ed è in quest’ambito di sacrificio che Rocco aveva avuto sin da giovane delle responsabilità. Poi, come figlio più grande – questo per me costituisce un rammarico – fece sempre una vita più sacrificata della mia. Era molto protettivo nei miei confronti. Ha sempre voluto che studiassi, ma non era facile per uno come me studiare perché anch’io ero chiamato ad assolvere questi lavori. Lui si sacrificava al posto mio. Fino alla fine, Rocco, quando stava a Palermo, faceva dei turni ravvicinati e rinunciava alle ferie, per poi godere di 15-20 giorni per venire qui ad aiutare la sua famiglia. Dopo un viaggio estenuante, da Palermo a Bari e con un’auto e in condizioni stradali pessime, appena arrivava qui andava in campagna per lavorare per evitarmi questi impegni che sottraevano tempo allo studio. Il nostro era un ambiente familiare in cui non era tutto dovuto. Anzi, nulla. C’erano dei sacrifici da fare. La vita bisognava guadagnarsela. Ed è in questo contesto familiare di sacrificio, educazione e legalità che è nata la personalità così dedita al lavoro di Rocco. Andare all’età di 23 anni a Palermo rinunciando a piccole e grandi comodità di una famiglia, non è facile. Però ci vuole un bel coraggio. Ho un ricordo bellissimo e lo ringrazio come fratello e come cittadino per quello che ha fatto. Non deve essere stato facile. Sono alla soglia dei miei 60 anni e, più vado avanti, più mi rendo conto della preziosità di questo esempio. Questo ci spinge ad andare avanti».

Quest’anno la triste ricorrenza di Capaci segnerà il numero 32 nel pallottoliere degli anni trascorsi. Lei qualche tempo fa ha affermato di non credere che le stragi di mafia siano opera solo di Cosa Nostra. Pensa, dunque, che ci siano ancora delle verità da scrivere su ciò che avvenne davvero il 23 maggio del 1992 e non solo?
Tocca un altro punto critico molto importante. È evidente che la verità su queste stragi non si conosce. Abbiamo ancora aperto un fascicolo enorme presso la Procura di Caltanissetta. Siamo al “Capaci ter”. Francamente questo non conoscere la verità è un peso. È uno degli aspetti spiacevoli di questa vicenda. Ce ne sono tanti di aspetti connessi alla strage, sia familiari che sociali. Questo è molto importante. Il fatto che poi non ci sia solo mafia è la mia percezione. Non sono un tecnico, lo dicono i giudici non lo dico io. Io ho questa impressione che mi deriva dalla considerazione che una strage così organizzata non può essere messa in atto da coloro che sono stati arrestati, solo da loro. C’è dell’altro che non si sa. Sono passati 32 anni. Mio padre è morto senza conoscere la verità. Questo è molto grave, fa male a livello familiare. Ma è anche brutto come verità storica. Dopo 30 anni cosa andiamo a dire nei ragazzi nelle scuole? Che Rocco Dicillo e gli altri sono morti per Riina, Provenzano e basta? Ritengo che sia una verità storica parziale. Questo ci indigna e non rende onore ai morti e neanche ai vivi».

Quando fu arrestato Matteo Messina Denaro, lei si domandò retoricamente: “Di cosa esultiamo? Trent’anni sono una vita e non so cosa ci sia da essere contenti”. Oggi l’ultimo boss stragista è morto senza dire nulla se non fare poche inutili allusioni. Si aspettava o sperava in qualcosa di diverso?
«Sono stato sempre convinto di no, già da quando ci fu l’arresto di Riina. Loro non parlano. Io lo dissi che sono mafiosi e per loro formazione non ci si aspetta questo. Non parleranno mai».

Dicillo, purtroppo spesso si suole parlare della strage di Capaci e delle vittime nominandone solo alcune e liquidando le altre come “gli agenti della scorta”. Secondo lei è una involontaria classificazione di vittime di serie diverse oppure c’è il rischio che si disperda anche la memoria dei nomi e cognomi di coloro che sacrificarono la loro vita per difendere quella dei magistrati che scortavano?
«Questa è un’altra domanda molto importante. Tanto è vero che, in questi ultimi giorni, c’è una sorta di presa di coscienza e protesta da parte degli ex colleghi di mio fratello, ossia gli agenti scorta. Si sono ribellati di fronte al fatto che il sindaco di Pistoia ha intitolato una targa nella quale si riportava la dicitura “Ad Antonio Montinaro ed agli altri agenti di scorta”. Siamo rimasti tutti stupiti, molto delusi da questo. C’è una contestazione in atto, è stata scritta una lettera aperta, anche a mio nome, al sindaco di Pistoia. È spiacevole e fa parte di un’antimafia sbagliata, distorta. Sono morti insieme Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Montinari. Questo è un altro aspetto un po’ negativo, particolare, connesso a quelle che sono le conseguenze di come si vive la strage di Capaci. Si dovrebbe fare una memoria sobria, disinteressata, non remunerata. Prima c’era chi si opponeva al fatto che si dicesse: “Al giudice Falcone e agli agenti di scorta”. Ed era giustissimo. Però queste stesse persone che si opponevano a questa menzione parziale e ingiusta ora parlano di “Antonio Montinaro e altri agenti di scorta”. Questo fenomeno, in realtà, è sempre esistito. È da 30 anni che sopportiamo questo protagonismo da parte di alcuni parenti, che non sono neanche titolati a parlare perché non hanno dato niente per questo lavoro. Al limite possono parlare i colleghi di mio fratello, del reparto scorte, che sanno come sono andati i fatti. Il rischio che lei ipotizzava, che ci sia una perdita della memoria, o comunque una memoria parziale, esiste. Io qualche anno fa mi sono rivolto ad uno scrittore di Triggiano con cui ho scritto il libro “Oltre Capaci”, ma perché avevo veramente il timore che si perdesse la memoria.  C’è un altro aspetto che deve conoscere, sempre vissuto da noi con molto dispiacere».

Prego, mi racconti pure.
«Deve pensare che Rocco Dicillo, solo perché nato a Triggiano in provincia di Bari, è stato sempre ricordato poco. Nei primi anni venivo invitato e assistevo alle cerimonie qui, mentre a Bari, ad esempio, Rocco Dicillo non viene mai ricordato. Eppure io ci abito a Bari. Poi andavo a Palermo ed era un altro discorso, una memoria viva. Mi ha fatto piacere tanto piacere questa ribellione che c’è stata da parte del reparto scorte di Palermo, perché è una presa di coscienza. Io però ho detto: “vi siete ricordati solo ora che c’è chi specula su questa maledetta strage?”. Quando si va nelle scuole a parlare della strage di Capaci, chi ha un incarico della Polizia di Stato che prevede la memoria deve farlo in modo giusto e non andare a parlare solo di Antonio Montinaro e non di Rocco Dicillo. Fa male, non è dignitoso né rispettoso nei confronti di Rocco Dicillo e Vito Schifani. Noi abbiamo vissuto sempre con sobrietà questa vicenda. Affranti dal dolore abbiamo detto “beh ormai Rocco è morto”, però non è giusto in quanto la memoria è importante. Anche Rocco e Vito hanno fatto le loro scelte e sono morti per un motivo».

Lei mi dà la stura per la domanda successiva. L’antimafia, inutile negarlo, sta vivendo una stagione di profonda crisi. Negli anni diverse inchieste, ma anche fatti ed eventi hanno minato profondamente la fiducia dei cittadini in una certa antimafia. Lei che idea si è fatto di questo mondo, che per noi continua ad essere essenziale, ma che forse ha un po’ perso di vita i valori ispiratori dell’inizio?
«Questo è un punto molto delicato e critico. Le faccio un esempio: quando capita che io vada nelle scuole, mi rivolgo soprattutto ai giovani. Loro hanno bisogno di credere in qualcosa. Bisogna fare memoria, antimafia, perché i più giovani non hanno avuto la possibilità di vivere quel periodo storico degli anni 80, cosa era la mafia e lo Stato. Poi i continui arresti, che avvengono anche in seno alle istituzioni, creano anche un po’ di disorientamento perché i giovani non sanno più da che parte stare. Non hanno un buon esempio dalle istituzioni in alcuni casi. Fare antimafia, andare a incidere sulla cultura di un giovane, lo si può fare con parole, ha la sua importanza. Ma francamente io non credo molto nelle cerimonie del 23 maggio e basta. Quel che conta è l’esempio che si dà dopo il 23 maggio. Che esempio hanno i giovani quando ci sono casi di corruzione e collusione con criminalità? Il giovane è disorientato di fronte a quello che vede. Lo Stato deve fare la sua parte e spesso non la fa».

Se potesse parlare oggi con suo fratello Rocco, anche solo per pochi minuti, cosa gli direbbe?
«Beh… da un punto di vista egoistico, da fratello, ovviamente non avrei voluto che lui facesse quel servizio. A volte sono scoraggiato, anche per come sono stato trattato dalle istituzioni. Non sono mature per un simile sacrificio. Quelli erano ragazzi che vedevano oltre quello che sto dicendo. Non dico di avere un rimorso… ma gli direi che forse ha sbagliato a dare la sua vita per lo Stato. Forse per gli altri può essere anche giusto, ma per lo Stato no. Non è giusto che le latitanze durino in questo Stato oltre 30 anni. Sì, sono contento per l’esempio e per l’utilità civica del suo sacrificio, non ci sono dubbi. Ma come fratello sono molto deluso. Si è innescata da allora una rivoluzione culturale ed è quello in cui loro credevano. Loro difendevano il giudice Falcone perché era il baluardo della legalità e stava anche cambiando la cultura della legalità. Loro si sono sacrificati per questo e va bene. Indubbiamente. Io, come fratello, però, egoisticamente non posso essere contento di aver perso un fratello con cui avevo un rapporto molto particolare. Mi è mancato e mi manca molto. Ritengo che questi ragazzi non siano stati adeguatamente tutelati. Forse era una questione di destino, non lo so. Ma sulla sua scelta, ripeto, non ero d’accordo. Era un po’ troppo totalitaria. È un lavoro troppo pericoloso, a rischio. Ma Rocco era contento così, si sentiva soddisfatto a mettere al servizio degli altri la sua persona e la sua professionalità». 

Giornalista
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