Il carabiniere che scampò alle stragi di mafia. «Così la mia vita è cambiata per sempre»

VIDEO | Venticinque anni fa l’ultimo attacco ‘ndranghetistico allo Stato: l’agguato a Saracinello in cui rimasero feriti due carabinieri. Siamo tornati in quei luoghi con Bartolomeo Musicò che ci ha raccontato cosa sia successo da quel maledetto 1 febbraio

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di Consolato Minniti
1 febbraio 2019
14:32

Il 1 febbraio del 1994, la ‘ndrangheta porta l’ultimo attacco all’Arma dei carabinieri, dopo l’omicidio degli appuntati Fava e Garofalo e il primo agguato del 2 dicembre 1993.

 


Sono all’incirca le 21, e a bordo dell’Alfetta ci sono Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra. Percorrono la Ss 106 in direzione Melito Porto Salvo, quando all’improvviso vengono investiti da una pioggia di fuoco.

A distanza di 25 anni da quei fatti, Bartolomeo Musicò, carabiniere oggi in congedo, ripercorre insieme a noi quel tragitto di sangue che cambia per sempre la sua vita e quella dei suoi familiari.

 

Le indagini virano in un primo tempo verso dei carichi di armi, intercettati dai militari in modo involontario. Ma c’è un fattore che viene messo in evidenza quasi subito: a sparare, nei tre agguati, sono state le stesse armi. Segno che i tre episodi sono sicuramente collegati. E l’allora magistrato della Dda, Vincenzo Pedone, oggi presidente del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria, ha un’intuizione che si rivelerà corretta a distanza di molti anni. Per il giudice, infatti, chi ha portato a termine gli agguati lo ha fatto volutamente con una matrice comune per sottolineare l’unico disegno, il messaggio diretto allo Stato.

 

Grazie alla testimonianza di un super teste, pochi giorni più tardi vengono arrestati gli esecutori materiali degli agguati. Si tratta di Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, due giovani cresciuti nel quartiere di Ravagnese, proprio quello dove avvennero due dei tre episodi. Entrambi vengono processati e condannati in via definitiva. Non ci sono dubbi che siano loro gli autori materiali. Ma nel 2010, a pochi giorni dall’esecuzione della pena per il duplice omicidio, accade qualcosa di strano. Consolato Villani decide di pentirsi ed inizia a raccontare una verità diversa sull’origine di quegli agguati.

 

Parole che anche l’altro killer, Giuseppe Calabrò, confermerà agli inquirenti in un drammatico interrogatorio in carcere: «È carne mia», dirà in lacrime ed impaurito per quello che, a suo avviso, esiste come retroscena degli attentati. Dietro gli attacchi ai carabinieri, infatti, non c’è casualità, ma un preciso disegno di matrice stragista. È quel programma per il quale anche il pentito Spatuzza dirà che «i calabresi si sono già mossi», riferendosi alle parole a lui dette dal boss di Cosa nostra Giuseppe Graviano. E nel luglio 2017, la Dda retta da Federico Cafiero de Raho, grazie ad un’indagine caparbia del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, arriva ad ottenere una misura di custodia cautelare in carcere per due persone: Santo Rocco Filippone, zio di Calabrò, e il boss di Cosa nostra, Giuseppe Graviano. Sono loro, per la Dda, i mandanti degli agguati. Filippone sarebbe stato l’uomo di fiducia dei Piromalli, cui gli stessi avrebbero affidato l’incarico di reperire persone fidate per gli agguati.

 

Il processo è ancora in corso davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria. Proprio oggi avrebbe dovuto deporre il pentito Cosimo Virgiglio, assente per motivi di salute. Intanto la vita di Bartolomeo Musicò è profondamente cambiata da quel 1 febbraio di 25 anni fa. Ora attende solo di sapere la verità sui mandanti dell’agguato che segnò per sempre la sua vita da carabiniere.

Giornalista
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