Da Reggio Calabria alla ribalta del noir italiano: pubblicato da AltreVoci racconta una storia spietata tra eredità, enigmi e follia dove il vero protagonista è un labirinto di potere e menzogne, raccontato con la voce ruvida e autentica di un autore che porta nella scrittura la rabbia ruvida della sua terra
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Ci sono scrittori che cercano storie. E ce ne sono altri che se le portano dentro. Diego Pitea fa parte di questi ultimi. Nato e cresciuto a Reggio Calabria, classe, voce e nervi del Sud, Pitea è uno di quegli autori che non scrivono per gioco. Scrivono per necessità. Con uno stile che non fa sconti, con una lingua asciutta, tagliente, e con la consapevolezza che il male non è mai spettacolo, ma sempre carne e sangue.
Con il suo nuovo romanzo, “Qualcuno mi uccida”, pubblicato da AltreVoci Edizioni e presentato in anteprima al Salone del Libro di Torino, Pitea conferma la sua statura di giallista vero. Non uno dei tanti. Ma uno che ha qualcosa da dire. Che non rincorre la moda, né si nasconde dietro tecnicismi o effetti speciali. Scrive come chi ha vissuto, e che della vita conosce anche le zone più buie.
La trama è costruita con precisione millimetrica, ma non cede mai al puro esercizio di stile. È un giallo, sì. Ma è soprattutto una discesa nell’ambiguità del potere, nel lato più oscuro dell’animo umano. Ambientato tra le colline della Liguria, il romanzo si apre con un invito misterioso: Richard Dale, esperto di psicologia comportamentale e investigatore dal passato opaco, viene convocato dal senatore Cesare Solari, figura leggendaria della politica italiana, nella sua imponente residenza: Villa Solari.
Il motivo? Impedire un omicidio. Non è chiaro chi sia la vittima, né l'assassino. Ma una clausola oscura nel testamento del senatore cela una trappola mortale. E quella che sembra una richiesta d’aiuto si rivelerà presto un gioco perverso e letale, costruito con una lucidità che rasenta la follia. Dale si ritroverà invischiato in un enigma che non lascia vie d’uscita: tra diari criptici, messaggi in codice, manipolazioni e sospetti, ogni passo in avanti sarà un passo verso l’abisso.
Al suo fianco, la brillante e irriverente Doriana Guerrera, mente libera e tagliente, che lo aiuterà a decifrare indizi e a smascherare menzogne. Ma più che un’indagine, la loro sarà una corsa contro il tempo, un viaggio mentale in un labirinto costruito per annientare la verità stessa. Fino a un finale che non lascia scampo, e che ribalta tutte le certezze.
Il romanzo, cupo e teso come una lama, conferma Diego Pitea come una delle voci più credibili e personali del nuovo noir italiano. Nonostante l’ambientazione ligure, l’impronta calabrese si sente forte e chiara. Non nei luoghi, ma nel carattere, nei dialoghi, nei silenzi pesanti. Quella durezza secca che viene dal Sud, quella rabbia lucida che è tipica di chi ha imparato a non fidarsi delle apparenze e a riconoscere il pericolo sotto i sorrisi.
Pitea porta la Calabria dentro la penna, non come folklore, ma come nervatura profonda. Non ha bisogno di raccontarla direttamente: la Calabria gli scorre nelle vene, e si traduce in un modo di vedere il mondo fatto di sospetto, ironia amara e grande resistenza emotiva.
Vive ancora a Reggio Calabria, dove divide la vita con la moglie Monica – lettrice fidatissima, “quella dei libri”, come la chiama lui – e tre figli che ha ribattezzato con affetto e ironia Nano, Mollusco e Belva. Con loro ha costruito un universo familiare fatto di storie, di affetti tenaci e di quella sana ossessione per la scrittura che lo accompagna da sempre.
Ha esordito con “Rebus per un delitto”, finalista nel 2012 al Premio Tedeschi della Mondadori, affermazione ribadita nel 2014 con “Qualcuno mi uccida”, ora ristampato in una nuova edizione completamente rivista. Sono seguiti “La stanza delle illusioni” (2021) e “Come agnelli in mezzo ai lupi” (2023), romanzi che hanno consolidato la sua reputazione tra gli addetti ai lavori e tra un pubblico sempre più affezionato.
Oggi, con Qualcuno mi uccida, Diego Pitea firma il suo romanzo più ambizioso e spietato. Un’opera che conferma la sua capacità di maneggiare la tensione narrativa con eleganza e crudezza insieme, senza mai cedere al sensazionalismo. La sua voce è ruvida, ma piena di empatia. Il suo sguardo è lucido, ma mai cinico.
E soprattutto, non ha paura di raccontare che la verità non è mai una sola, e che spesso la giustizia ha il volto stanco di chi ha capito troppo tardi cosa stava succedendo. Diego Pitea non cerca eroi. Cerca verità sepolte, e lo fa con la testardaggine di chi viene da una terra che non ha mai avuto paura di dire le cose come stanno. E oggi, finalmente, il noir italiano ha trovato un altro grande protagonista. Calabrese, e fiero di esserlo.