Filosofo, scrittore e firma di LaC News24, racconta le emozioni per il debutto alla kermesse con il suo ultimo libro La ragazza dei Navigli dedicato ad Alda Merini. E dice: «Scrivere, per me, significa resistere»
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Francesco Vilotta, giovane docente e filosofo, scrittore di successo, cosentino. E non solo, Francesco da qualche tempo è una bella penna di LaC News24.
Pronto per il Salone del Libro di Torino. È la tua prima volta?
«Sì, è la mia prima volta e la vivo come un debutto carico di emozioni. In passato non sono mancate le opportunità, ma sono sempre stato convinto che ogni cosa maturi nel momento più opportuno. Ora sento che questo è davvero il momento giusto. Il Salone è un tempio della cultura e della parola scritta: esserci con il mio ultimo libro significa sentirsi parte di un dialogo più ampio, che attraversa il tempo e le coscienze. Per me, è soprattutto un gesto di amore verso la letteratura e verso chi ancora crede nella forza delle idee. Sarà un onore essere presente al Salone Internazionale del Libro di Torino tra gli autori che rappresentano la Calabria in questo prestigioso evento».
Si tratta di una bella opportunità per te.
«Un’occasione per raccontare il viaggio straordinario nella vita e nell’opera di Alda Merini, tra poesia, fragilità e genialità. Per chi, come me, vive fuori dalla propria terra, il legame con le radici diventa ancora più forte e profondo. Ringrazio la Regione Calabria, la direzione artistica e l'organizzazione per questa importante opportunità. Portare la Calabria al Salone significa portare la sua cultura, la sua forza, la sua poesia: un modo concreto per dare voce a una terra che, pur nella distanza, per me continua a essere presenza quotidiana e ispirazione autentica».
Che libro porterai al Salone?
«Sarò al Salone Internazionale del Libro di Torino con il mio ultimo lavoro, La ragazza dei Navigli. Vita, opere e parole di Alda Merini, un libro che rappresenta per me un viaggio intenso e appassionato dentro la vita e l’universo poetico di una delle voci più autentiche e profonde della letteratura italiana. Attraverso questo libro ho cercato di raccontare non solo la straordinaria forza creativa e visionaria di Alda Merini, ma anche il suo percorso umano, fatto di luce e ombra, di dolore e rinascita, di fragilità e coraggio. Portare La ragazza dei Navigli al Salone significa per me dare voce a un’artista che ha saputo trasformare la sofferenza in parola viva, restituendo al mondo una poesia capace di attraversare il tempo e di parlare ancora oggi a ciascuno di noi».
Prima di lei è stata la volta di un grande personaggio della cultura italiana.
«Sì, prima di Alda Merini è stata la volta di Pier Paolo Pasolini. Con L’Eretico ho voluto restituire la voce a un intellettuale “scomodo” e profetico, capace di leggere con straordinaria lucidità e anticipo il cambiamento antropologico dell’Italia, l’impoverimento della cultura e della politica, la trasformazione violenta e silenziosa imposta dal consumismo di massa. Pasolini non è stato soltanto un testimone del suo tempo, ma un interprete profondo delle contraddizioni che ancora oggi attraversano la nostra società. Raccontarlo oggi significa riconoscere quanto ci manchi il coraggio delle sue parole, la sua capacità di interrogare il presente senza cedere alla complicità del silenzio e dell’omologazione. È un autore al quale rimango fortemente legato, non solo per l’attualità straordinaria del suo pensiero, ma per la radicalità con cui ha scelto di non arretrare mai di fronte alle verità più scomode. L’Eretico è stato un libro molto fortunato che ha ricevuto diversi riconoscimenti a livello nazionale. Un lavoro che mi ha dato grandi soddisfazioni e che ha rappresentato per me un momento importante di crescita personale e professionale».
Cosa lega i due grandi artisti italiani?
«Li lega la solitudine e il coraggio. Pasolini e Merini hanno vissuto esistenze diverse, in contesti differenti, ma entrambi hanno pagato un prezzo altissimo per il loro rifiuto di piegarsi alle regole del loro tempo. Sono stati due eretici nel senso più alto e nobile del termine: fedeli alla verità profonda del loro sentire, disposti a sfidare il conformismo, l’indifferenza, l’ipocrisia, senza concessioni e senza protezioni. Pasolini, con la sua lucidità feroce, e Merini, con la sua fragilità incandescente, hanno saputo trasformare la marginalità in forza espressiva, la sofferenza in arte, l’incomprensione in linguaggio universale. In un’epoca come la nostra, spesso incline alla superficialità e all’omologazione, le loro voci continuano a essere necessarie: voci radicali, autentiche, capaci di ricordarci che la cultura non è mai un gesto neutro, ma sempre un atto di verità e di resistenza».
Il Salone del Libro di Torino è sempre una grande emozione.
«Lo è davvero. Non è soltanto la celebrazione del libro, ma la celebrazione di tutto ciò che il libro rappresenta: la cultura come bene necessario, non come lusso o privilegio. Camminare tra gli stand, respirare il profumo della carta, incontrare autori, editori e lettori appassionati significa vivere un’esperienza che va oltre la semplice promozione editoriale: è un incontro reale, fisico, umano, in un’epoca segnata dalla velocità e dalla comunicazione digitale. È un modo per ricordarsi, anche senza bisogno di parole, che il pensiero critico e la creatività sono ancora vivi, che la parola scritta resiste, si rinnova e continua a costruire ponti tra le persone e tra le generazioni».
Essere parte di tutto questo, anche solo per qualche giorno, è una grande soddisfazione e insieme una responsabilità.
«Ancora più emozionante sarà poter presentare il mio lavoro nello spazio della Regione Calabria, uno spazio che ho avuto la possibilità di vedere in anteprima e che è davvero molto bello: un risultato importante, frutto dell’impegno della direzione artistica e degli organizzatori, che hanno saputo creare un luogo capace di racchiudere e raccontare l’altra faccia della Calabria, la sua faccia migliore. Un’occasione preziosa per andare oltre preconcetti e pregiudizi, e per mostrare una terra ricca di cultura, energia e futuro».
Sai i numeri di questa edizione?
«So che sono numeri importanti: centinaia di autori, migliaia di libri, decine di migliaia di visitatori attesi da tutta Italia e dall’estero. Quest’anno, tra l’altro, anche la Calabria sarà protagonista con numeri straordinari: una presenza forte, qualificata, capace di raccontare l’identità di una regione viva, che crede ancora nella cultura come strumento di crescita e di riscatto. Ma la verità è che, al di là delle cifre, quello che conta davvero è l’intensità dei volti, delle mani che sfogliano pagine, degli occhi che cercano una storia da cui farsi toccare. È lì che la cultura si compie: nell’incontro silenzioso e irripetibile tra un libro e chi sa ancora fermarsi ad ascoltarlo».
Hai già in mente il tuo prossimo lavoro?
«Sì, c’è un nuovo libro a cui sto lavorando da un po’ di tempo. Come accaduto per L’Eretico, credo che certi libri abbiano bisogno di tempo per maturare, per sedimentare nel silenzio prima di trovare la loro forma definitiva. È un progetto che, in questo momento, sta decantando, come un vino che ha bisogno di affinarsi prima di essere raccontato. In parallelo, sto portando avanti un altro lavoro che mi appassiona molto: un progetto che intreccia letteratura e giornalismo, un percorso che nasce dall’urgenza di guardare l’attualità non solo con gli strumenti dell’analisi, ma anche con quelli della narrazione e della riflessione critica. Entrambi i progetti segnano, in qualche modo, una deviazione rispetto ai miei lavori precedenti: una ricerca nuova, che sento necessaria, per continuare a interrogarmi e a interrogare il presente senza restare fermo nelle stesse traiettorie».
Per chi non ti conosce, cosa possiamo dire di Francesco Vilotta?
«Un cercatore inquieto. Una persona che crede nella parola come atto di resistenza e di amore, come strumento per affermare la propria presenza nel mondo. Un autore che cerca di raccontare l’umano nella sua nudità più vera, senza retorica, senza compiacimenti, senza scorciatoie. Amo la letteratura che osa, che non ha paura di sporcarsi con la realtà, che non smette di fare domande, anche quando le risposte sembrano scomode o impopolari. Credo che il pensiero critico sia la nostra unica vera forma di libertà: quella che ci permette di rimanere fedeli a noi stessi, anche quando tutto intorno spinge verso l’omologazione e il facile consenso. Scrivere, per me, significa resistere: alla superficialità, all'indifferenza, alla perdita di senso. È un gesto di fedeltà non solo nei confronti del lettore, ma anche verso la vita e verso l'idea che ogni parola autentica possa ancora lasciare una traccia».