Nel giorno in cui l’Italia attraversa i viali dei cimiteri, tra cipressi immobili e lumini che tremano come respiri stanchi, si risveglia una tradizione antica: quella del ricordo che consola, dell’umiltà che riconcilia. Se Foscolo, nei Sepolcri, ci insegna che la memoria salva dall’oblio, Totò ci ricorda che nella morte non c’è arroganza che tenga: “Stammo tutt’eguale…”. È questa la sua rivoluzione, discreta. Sono versi che scavalcano il secolo, che attraversano epoche e mode, che continuano a parlarci con la forza della verità.

"A livella" nasce dalla povertà, dalla strada, dall’umile sapienza di chi ha guardato la morte negli occhi. Totò non teorizza, non edifica sistemi filosofici: osserva. E in quell’osservazione si compie la sua etica. Nel cimitero, luogo che per altri è soglia dell’infinito o teatro metafisico, come per esempio per Pirandello, Totò vede la cosa più semplice e seria del mondo: la fine è democratica, più di qualsiasi assemblea, più di qualsiasi legge. Anche il marchese, impettito nella sua vanità, quando protesta contro il vicino plebeo, scopre l’inutilità delle sue insegne: la terra ha già smussato ogni stemma, e nel silenzio dei morti nessun titolo risuona più.

Che attualità può avere, oggi, questo dialogo fra due scheletri? Immensa. Perché viviamo nel tempo della proclamazione permanente, dell’identità ostentata, del prestigio come difesa. In un’epoca in cui le differenze sociali ritornano con una violenza sottile, quasi estetica, la voce di Totò sussurra come ammonimento dolce: la gerarchia è finzione fragile, la dignità è universale. Non c’è algoritmo né prestigio digitale che possa cancellare la semplicità abissale di quel messaggio.

Totò ci appare, così, sorprendentemente moderno: in una società che teme la morte, lui la rende familiare; in un mondo che misura l’uomo dal ruolo, dalla visibilità, dal possesso, lui lo misura dall’umanità. La sua ironia è carezza, non scherno: sorride, ma per insegnare. È la risata che smonta la superbia senza umiliare, che restituisce il senso della proporzione, che riconduce ognuno alla sua condizione fragile e luminosa di creatura di passaggio.

Erede del teatro popolare napoletano, figlio di un secolo ferito e povero, Totò non concepisce la morte come tragedia metafisica, ma come livella morale. È, in fondo, una forma di pietà: ricordarci che nessuno è più grande di un altro di fronte al mistero. E se la modernità ha reso la morte distante, istituzionalizzata, quasi banale, Totò la riporta nel linguaggio delle madri e dei vicoli, dei funerali semplici, delle croci di legno che non ostentano ma custodiscono.

Ecco perché oggi, nella luce incerta di novembre, Totò non ci fa solo ridere, ci educa. Ci richiama, con il sorriso, a una consapevolezza civile e spirituale: che la memoria non è privilegio di pochi, che l’umiltà è forma di grandezza, che il nostro passaggio nel mondo vale nella misura in cui non dimentichiamo di essere tutti, irrimediabilmente, temporanei.

E se Foscolo ci dona il culto della memoria per vincere l’oblio, Totò ci dona la semplicità per vincere la superbia. Nel silenzio dei cimiteri, le sue parole non suonano comiche: suonano giuste, suonano vere, suonano come una preghiera laica recitata a mezza voce — quella che dice che la morte ci rende uguali, ma è la gentilezza che, in vita, ci distingue.

E allora, oggi, mentre pensiamo ai nostri morti, lasciamo che al fianco dei versi solenni risuoni anche la voce umile del Principe della Risata. Perché ricordare è atto d’amore, ma ricordare con umiltà è atto di verità. E forse, in quell’equilibrio fragile tra memoria e uguaglianza, si nasconde il segreto più profondo dell’essere umani.

E così, alla fine, tra Foscolo che consacra il ricordo, Pirandello che smaschera la finzione, Pascoli, un grande poeta del Novecento, che sussurra la tenerezza dell’addio, Totò si staglia come voce del popolo e del destino, custode dell’uguaglianza ultima.

Nel suo sorriso un po’ malinconico e nella sua ironia affettuosa c’è tutto ciò che serve per comprendere la morte senza esserne schiacciati: nessuno sopravvive alla tomba, ma tutti possono sopravvivere nel ricordo — purché abbiano saputo amare senza ostentare. Finché qualcuno ci pensa, davvero, nessuno muore. E forse, in questo semplice atto della memoria democratica e gentile, si nasconde la più umile delle eternità.