Oggi inauguriamo una serie di otto ritratti di scrittori calabresi più o meno noti che hanno contribuito in maniera decisiva a definire l'anima della regione. Il primo è dedicato all’opera del letterato originario del Vibonese
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Pietro Lazzaro non è tra gli scrittori calabresi più noti, ma certamente è tra quelli più degni di essere ricordati. Nasce a Motta Filocastro, una frazione di Limbadi, ora in provincia di Vibo Valentia, nel 1912. Trascorre la fanciullezza e l'adolescenza nei campi, immerso nella lettura di libri di ogni genere. Frequenta, insieme ad altri due fratelli, il ginnasio di Nicotera e il liceo classico a Vibo Valentia e a Catanzaro, dove consegue la maturità nel 1931. Si sposta prima a Roma e poi a Milano per studiare la letteratura e laurearsi nel '36. Proprio nel capoluogo lombardo, dopo un periodo di gravi disagi materiali, diventerà professore di ruolo nel prestigioso liceo intitolato a Giovanni Berchet. Per alcuni anni insegnerà anche a Parigi. Muore nel 1969, lasciando saggi, traduzioni, racconti inediti e, in particolare, tre romanzi, due dei quali pubblicati postumi.
Il suo primo romanzo, Mille anime, viene scritto nel 1949, ma rimane nel cassetto fino al 1987, quando esce per Jaca Book, con la prefazione di Massimo Romano. L’opera si presenta come un affresco universale e antiepico, in cui la vita quotidiana di una comunità contadina viene rappresentata senza esotismi né compiacimenti. L'aura di miseria che stagna nelle vie del paese posto al centro della storia (nei cui tratti è riconoscibile Limbadi), tra corpi estenuati dalla calura, mucchi di spazzatura, galline e maiali che scorrazzano ovunque, ricorda da vicino alcuni angoli delle nostre province e, allo stesso tempo, si pone come universale. Dall'immobilità del villaggio ci si può salvare soltanto anelando all'invisibile e all'ignoto, provando a superare la distesa uniforme del niente.
Il romanzo è stato oggetto di un crescente interesse critico negli anni Duemila, anche grazie a chi ne ha evidenziato il valore letterario, oltre che antropologico.
Lazzaro non racconta una Calabria pittoresca: le figure, i gesti quotidiani, la fatica e le voci costruiscono una trama che dispone di due margini: uno storico e uno simbolico. Le mille anime del titolo non alludono soltanto alla pluralità dei personaggi, ma anche alla complessità delle identità che popolano una certa realtà meridionale sospesa tra memoria sbiadita, talvolta disordinata e caotica, ed eccesso di immaginazione, tra la miseria, percepita come un carcere, e il ritmo favoloso della realtà.
Nel 1968, un anno prima di morire, Lazzaro pubblica La stagione del basilisco, bellissimo romanzo scritto tra l'autunno del 1966 e l'inverno dell'anno successivo e che, sempre nel '68 vincerà il premio “Villa San Giovanni”. La narrazione si popola di una serie di figure associate le une alle altre da una logica quasi mai perfettamente binaria, animando uno spazio agonico che si può definire in termini di inconscio collettivo o, ma è quasi la medesima cosa, di fogna. È in questo spazio che l'oste, il pittore del transfinito, la greca, il cameriere di origini calabresi, la ragazza di Lyon, l'ornitologo, la bambina negra, lo zoppo, il mongoloide e tanti altri personaggi danno vita a una chanson de geste, rovesciata sistematicamente dalla graffiante ironia dell'autore.
Le loro interazioni e le conversazioni che le accompagnano, piene di allucinazioni e di sogni e improntate su un presente transfinito, assurdo, perenne, incapace di riflettere su sé stesso, fanno sì che su Parigi cada una continua pioggia di merda. L'oscurità della fogna raccoglie le parole e i pensieri, rappresentazione di un'esistenza fatta di perpetue corrispondenze e di inediti parallelismi, di termini ricorrenti e di inaspettate e mostruose similitudini e associazioni di idee, tenute insieme in quello che Lazzaro definisce l'imbroglio generale, all'interno del quale ogni immagine introduce un trucco che occupa la prigione identitaria di ciascuno.
Eppure, Parigi è una fogna, un mondo di plastica in cui ogni dialogo diventa una frode, «un miserabile tentativo di uscire da se stessi per fare un po' di commercio». Di tanto in tanto, però, la metrica di questo polifonico labirinto è squarciata da un'esplosione, da un vento improvviso che riporta immagini di vicende lontane che scalfiscono per un momento l'asfittico silenzio della fogna. La crepa, tuttavia, è troppo irrilevante e non riesce a impedire che la truffa delle immagini ricominci, che Parigi, ossia la Storia, riprenda il sopravvento, riconducendo ancora alla vacua letteralità delle figure che quotidianamente ne popolano il suo unico senso.
Il terzo romanzo, La breve muraglia, ha una genesi particolare. È la stesura iniziale di Nebbia, opera inedita che piace ad Alberto Mondadori, ma che Lazzaro sembra deciso ad accantonare. Viene scritto prima degli altri due, tra il 1946 e il 1947, ma rimane inedito per decenni, fino al 2021, quando, grazie alla sensibilità dei due figli dell'autore, Enzo e Bruno, sarà pubblicato per i tipi di Pellegrini. La prima parte del romanzo è ambientata tra gli anni venti e l'inizio del decennio successivo. L'autore descrive con toni realistici il paese d'origine del protagonista e tuttavia non si può fare a meno di cogliere gli aspetti visionari che contraddistinguono la disumana condizione di chi vive nel meridione. Tanto i vivi quanto i morti sono costretti in un tempo eternamente presente, lo stesso cui è ridotto chi è sepolto, a quanto si dice, nella Muraglia cinese. La morte è, dunque, un'oscura attesa, una condizione che non si evolve. Non sorprende che l'unica arma per far fronte a tale condizione sia l'ironia, “ricerca della nostra umanità nel suo continuo farsi”, quintessenza della disposizione d'animo e di stile che caratterizza Lazzaro.
A partire dagli anni Duemila, l’opera di Pietro Lazzaro è stata oggetto di una parziale riscoperta da parte della critica, soprattutto nell’ambito degli studi dedicati alla letteratura italiana moderna e alla memoria culturale del Sud. Nel panorama italiano del secondo Novecento, la sua traiettoria letteraria rimane defilata, ma tutt’altro che marginale. La sua scrittura, priva di concessioni alle mode del tempo, si affida a una lingua sobria ma vigile, capace di restituire la complessità di un mondo meridionale immobile solo all'apparenza. Nei suoi romanzi, ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio diventa traccia di un’esistenza che, in qualche modo, cerca di resistere all’oblio, alle distorsioni dell'inconscio e degli stereotipi. Sarà per questo che rileggere oggi Lazzaro significa confrontarsi con una narrativa che lascia spazio all’ascolto e al dubbio. È come se la sua eredità fosse fatta di presenze che continuano a parlare, ma solo a chi è disposto a fermarsi, a osservare meglio, ad accettare la possibilità che la percezione e il ricordo abbiano una fenditura, attraverso la quale è possibile comprendersi meglio.