Offrire un resoconto di un concerto di Nick Cave non può ridursi a un semplice reportage. È un madornale errore di prospettiva pensare che sia sufficiente elencare la scaletta o magari descrivere l’atmosfera del pubblico. Quanto detto può fungere da assunto perché con Cave – forse soprattutto in questa tournée – la musica si trasforma in qualcosa di più. Si tratta di un’esperienza di prossimità emotiva, di un rito condiviso laddove arte e ascolto dialogano senza filtro.

Dopo le tappe di Mantova, Lucca e Pompei, il tour europeo approda a Roma, il 21 e il 22 luglio, al Parco della Musica. Anche qui, come avvenuto altrove, il palco è essenziale, l’ingresso sobrio, il suono rarefatto. Non c’è a seguirlo la sua band e non figura alcun apparato scenico. Soltanto lui, seduto al pianoforte, e accanto Colin Greenwood, bassista dei Radiohead, presenza discreta, ma cruciale, poiché coprotagonista di una conversazione musicale fatta di note, cenni e silenzi.

Il repertorio scelto è inevitabilmente intimo e tocca brani imprescindibili come “Girl in Amber”, “Jubilee Street” e “O Children”. Eppure, quanto colpisce non è la scaletta in sé, comunque ben nutrita, ma il farsi carne di ogni verso, il tramutarsi in ferita delle parole. I brani non sono semplici pezzi da eseguire: diventano confessioni intime, frammenti elegiaci.

Rispetto ad altre tappe, il secondo e ultimo concerto romano si contraddistingue per il carattere ancora più sbilanciato verso l’incontro. Difatti, Cave allenta le distanze col suo pubblico, interrompe varie volte i brani per raccontare, ridere e ricordare. Con ironia e tono sincero, parla di Susie, sua moglie, ma anche di suo padre e si forma facilmente una fragile complicità tra chi si espone e chi assiste.

Dunque, è un ascolto sospeso, un respirare a tempo della sua voce. Proprio questo può essere il segno distintivo del concerto: il passare da una spettacolarizzazione a un grado di sacralità. Rendere l’arte una cerimonia laica in cui si esce a tutti gli effetti trasformati poiché si comprende come la musica non consoli, ma accompagni, come non accontenti, ma interroghi.

Cave ha deciso con questi concerti di allontanarsi da stadi e grandi festival per riavvicinarsi ancora di più agli occhi, ai volti, alle mani, per cercare gli altri e forse, proprio nell’incrocio degli sguardi, riconoscersi. Non è un atto nostalgico, ma una presa di posizione, il voler ritrovare la forma originaria dei suoi brani, una sorta di esigenza, come chiarisce lui stesso dopo le prime note. In un’epoca in cui la musica è sempre più contenuto da consumare in fretta, rispondente alle regole della fruizione algoritmica, qui accade il contrario: ci si ferma, si ascolta, si partecipa.

Non sorprende allora riferire che decine di spettatori hanno lasciato i loro posti per sedersi accanto a lui o per avvicinarsi il più possibile al palco. Il pubblico è diventato coro silenzioso, cerchio d’ascolto, dando vita a un’immagine che non si dimentica. Ecco perché, quando arriva “Into My Arms”, come da chiusura abituale del tour, diventa difficile perfino cantare assieme a Cave. Così, le luci si abbassano e resta la sensazione di aver vissuto un momento di verità grazie a una musica che non pretende di spiegare il mondo, ma che lo abita con tutta la forza che sa sprigionare.