Il giornalista catanzarese, al suo esordio da narratore, descrive la realtà di un quartiere difficile: «C’è violenza e voglia di riscatto. C’è degrado, ma anche speranza»
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Saverio Fontana nasce a Catanzaro nel 1970. È pubblicista e recensore di spettacoli e ha di recente intrapreso gli studi in Giurisprudenza presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro. Il suo interesse per il giornalismo nasce da giovanissimo, mentre nonna Eugenia gli trasmette la passione per la letteratura.
Abbiamo incontrato Saverio in occasione della pubblicazione del suo primo romanzo: I fuochi. Un’opera che non nomina mai la Calabria, eppure la contiene tutta: nel linguaggio, nei paesaggi accennati, nelle vite fragili e testarde che abitano ai margini di una città.
Ciao, Saverio. I fuochi segna il tuo esordio da narratore. Descrivi una realtà difficile senza cadere nel sensazionalismo. Hai vissuto personalmente certe dinamiche di quartiere? Quanto c’è di vero?
«Tutto ciò che ho scritto l’ho osservato. Non ho inventato nulla. Certo, le storie di superficie sono romanzate. Io sono cresciuto nella Catanzaro alta, quindi certe dinamiche mi erano estranee. Ma nel quartiere in cui si sono trasferiti i miei genitori – e io insieme a loro – da quelle che erano 35 famiglie rom sono diventate centinaia. Un supermercato, un bar, la sala d’attesa del medico curante, sono zone frequentate anche da loro che parlano delle proprie attività senza reticenza. All’inizio si diceva che dividendo una famiglia per quartiere non si avrebbero avuto problemi. Infatti, loro traggono forza dal fatto che possano vivere in gruppo, circoscritti in un ghetto che loro stessi creano. E palesandosi non ho incontrato difficoltà nel conoscere la loro mentalità.
Ho voluto mettere in risalto tutti gli aspetti della comunità. Cose che non ci aspetteremmo. Yul, ragazzo rom dedito alle attività criminali di famiglia, è molto curato, perfettino, tiene molto all’igiene personale e dei propri spazi. Conosco un ragazzo che è esattamente così. La sua auto deve essere sempre pulita e profumata».
Lo hai rimarcato per contrastare il pregiudizio secondo cui i rom sono persone sporche, che non si curano?
«Sì. Ho descritto anche le loro case, piene di lusso, sempre ordinate. Perfino le scale e i muri adiacenti sono curate nei dettagli con pietre decorative. La cosa interessante è il contrasto che c’è tra dentro e fuori: se all’interno è tutto perfetto, all’esterno la pila di rifiuti è insormontabile. Il messaggio è chiaro: la raccolta differenziata non esiste perché rappresenta l’intervento dello Stato. E lì lo Stato non esiste. Il Comune non ha accesso. La raccolta differenziata non può esistere. Loro hanno il dominio totale».
Non sei stato didascalico, ma la denuncia sociale è presente.
«Io ho descritto uno spaccato di vita reale. C’è gente come me che osserva, ma si gira dall’altra parte. E io ho sentito l’urgenza di raccontarlo per contrastare l’indifferenza. Quando certe abitudini sono ben radicate ed è più facile guadagnare soldi con il crimine, come si fa a credere che sarebbe meglio vivere in maniera onesta? La giustizia interviene, ma andare in carcere per qualcuno è anche un salto di qualità. Ne esce più forte, aumenta la sua reputazione, conosce altra gente del genere con cui fare piani futuri. E tutti noi sappiamo, ma ci giriamo dall’altra parte. Questo libro è un tentativo per non girarsi dall’altra parte».
Per quanto provi a mantenere un certo distacco, un autore metterà sempre del suo nella propria opera. Quanto troviamo di te all’interno de I fuochi?
«Non voglio dirti che c’è un po’ di me in tutti i personaggi perché non è così. Però, seppur ispirati a personaggi veri, alla fine sono creati da me. Inconsciamente, ci metterò sempre del mio. Io racconto un personaggio vero, ma è un personaggio vero per come l’ho visto io. Così come ciascun lettore, poi, trarrà le proprie conseguenze. Lo stesso lettore, in momenti diversi della propria vita, trarrà interpretazioni diverse dello stesso libro. Io non riesco ad avere un distacco da loro. Sono per strada e li vedo camminare verso di me. Vado al bar, qualcuno dice “Il solito!” e il mio pensiero va a una scena che ho narrato. Mi porto tutto sempre con me».
Nel libro non viene mai citata davvero la Calabria. Come mai questa scelta? Volevi rendere la storia universale per far sì che di conseguenza lo fosse anche il tuo messaggio?
«È una scelta presa da me in primis e poi confermata dal mio editore. Io descrivo un quartiere catanzarese, ma la storia può essere ambientata in un’altra provincia calabrese o magari anche fuori regione. Diverse città sono accomunate da storie simili. Che i protagonisti siano rom, extracomunitari o italiani non ha importanza. La storia non cambia. Ma la Calabria c’è. C’è nella convivialità tra personaggi non appartenenti alla stessa famiglia. Nella forma di cortesia del Voi. Nella figura di Don Dino che, rapportandosi con i parrocchiani dà del Voi, ma al Professore dà del Lei… il Lei crea distanza, il Voi è più caldo».
È vero, abbiamo questa forma di cortesia “confidenziale”! Proprio quello di Don Dino è un personaggio chiave: senza di lui i ragazzi non potrebbero aspirare al riscatto sociale. È ispirato a qualcuno che conosci?
«Io sono fratello di sacerdote in realtà! [Ride] Però no, non mi sono ispirato a lui come figura. O meglio, prendo spunto dalle opere buone che fa. Questa veste da uomo che si prodiga per il prossimo gliel’ho cucita addosso pensando a quanto gli stanno a cuore i ragazzi e alle sue collaborazioni con gli assistenti sociali».
Un uomo pio, che mette gli altri al centro. Però nel tuo libro non sono buoni solo quelli considerati canonicamente buoni. La famiglia rom fa un gesto di assoluto altruismo donando gli organi a un ragazzo italiano.
«Ecco, se ciò che trovi nel libro è tutto frutto di osservazione, forse questa è l’unica cosa che mi porto dentro da anni pur non avendola vissuta. Lessi tempo fa sulla rivista Avvenire che una famiglia palestinese decise di donare gli organi a diversi ragazzi israeliani. Al tempo avevo l’abitudine di appuntarmi i fatti che mi colpivano di più su un diario. Ma questo gesto mi colpì talmente tanto che non ho più avuto bisogno di rileggerlo tanto forte è la sensazione che mi ha lasciato. L’unica storia che nella realtà fuoriesce dal quartiere, ma sentivo di doverle dare risalto dopo anni».
Tu sei anche un avido lettore. Quali generi o autori ti hanno influenzato durante la stesura de I fuochi?
«Sicuramente il Verismo, il Realismo russo, il Naturalismo francese… Ma non perché mi piacciano di più e disprezzi gli altri autori o generi. Uno dei libri che leggo ripetutamente è I Promessi Sposi, di cui apprezzo molto la musicalità. Ma il romanticismo di Manzoni non potrebbe mai appartenermi perché incasella i personaggi in una definizione ristretta. Al contrario, il Verismo non stabilisce, non emana sentenze. Io non parteggio per i miei personaggi. Li espongo per come li ho visti».
Hai in mente nuovi progetti editoriali?
«Ho sospeso perché sto intraprendendo gli studi in Giurisprudenza. Ma non è poi una vera sospensione, perché quello che sto imparando sono sicuro che mi aiuterà nella stesura del prossimo lavoro. Se ci sarà. Sarò in grado di esprimere fatti con maggiore cognizione di causa. Come ti dicevo non invento, tutto deve trovare riscontro nella realtà. Ricerco la verosimiglianza perché voglio che quanto narrato sia credibile».
La tua scrittura è asciutta, seppur intensa. Una voce del genere è uscita in maniera naturale o l’hai cercata, limata?
«L’ho dovuta limare. Rispetto alla prima bozza, ho eliminato il 30% insieme all’aiuto del mio editor. Avevo la sensazione che scrivendo di più potessi dare di più, ma non è vero. Alcune cose non sembravano verosimili nemmeno a me, figuriamoci al lettore! C’era troppo, e in quel troppo sicuramente il lettore avrebbe trovato distrazioni. Voglio che la lettura sia immediata. Avrei potuto lavorare di più sulla musicalità, questo lo ammetto».
Lasciami dire che questa tua scelta stilistica ha dato vita a un libro accessibile, il cui messaggio è immediato. Ma cosa c’è dietro lo scrittore, cosa fai nella vita?
«Nella vita mi occupo di diverse attività. Se ti devo dire qual è il mio lavoro, ti rispondo sono un mulettista. Non ho mai disdegnato il lavoro, specie se mi permette di avere una sicurezza economica. Dall’altro lato, mi sono cresciuto a pane e Corriere dello Sport, sono stato per anni abbonato all’Espresso, ad Avvenire, già a scuola spiccavo con testi a impronta giornalistica… quindi non è stato difficile diventare giornalista. Ho collaborato per anni con diverse testate quali Catanzaro City Magazine, Storie di Calabria, InfoOggi… Però c’è da dire che non esiste solo la passione. Il mio lavoro da operaio mi ha permesso di vivermi la famiglia, crescere le mie figlie, mandarle all’università. Ma la passione persiste ancora, chiaramente».
Il lavoro da pubblicista ti è stato d’aiuto nello scrivere I fuochi?
«Mi è stato d’aiuto perché ho incontrato tante persone del mondo dello spettacolo, dagli attori (di teatro e di grande e piccolo schermo) agli sceneggiatori, agli scrittori. Scrivendo le recensioni degli spettacoli, ho sempre avuto un ottimo riscontro da parte loro che apprezzavano i miei pensieri. Parlavo dello spettacolo, ma anche delle emozioni che mi aveva trasmesso. Non era una scrittura fredda. Analitica sì, ma anche emozionale. Ho trovato nei loro apprezzamenti un ottimo incoraggiamento».
I fuochi è un titolo suggestivo. Sono fuochi che scaldano o che distruggono? Cosa significano per te?
«I fuochi sono presenti dall’inizio alla fine, sono un filo conduttore. Ci sono i fuochi d’artificio nella prima pagina, ma anche gli incendi nell’appartamento, il palcoscenico incendiato. Oltre al lato pratico, ci sono i fuochi interiori, ciò che brucia dentro a ciascun personaggio. Ognuno ha i suoi fuochi. C’è violenza e c’è voglia di riscatto. C’è degrado, ma c’è anche speranza».
Un ringraziamento particolare va a nonna Eugenia. È lei che ti ha trasmesso la passione per la scrittura?
«Lei ha imparato a leggere durante la Prima Guerra Mondiale. Ma non ha imparato a leggere solo per leggere. Si è appassionata alla lettura. Io ho scoperto il grande valore della lettura guardando nei suoi grandi occhi azzurri che brillavano qualsiasi cosa leggesse. Ogni volta che le chiedevo di leggermi il libro Cuore mi veniva da piangere. Crescendo l’ho letto da solo, senza piangere. Ma l’emozione è rimasta ugualmente. A volte mi chiamava a sé e per farmi stare buono mi diceva “Arricchjiami a mia!” [Ascoltami!] e iniziava a raccontami qualcosa. Qualsiasi cosa. Non era tanto importante l’argomento quanto il suo modo di narrare. Pura narrativa. Quel tipo di narrativa che avrei voluto rubarle. Se guardo al passato, al posto di stare dietro al pallone, avrei passato molto più tempo ad ascoltarla».
Saverio conclude ricordando il suo papà, che ancora prima di iscriverlo a scuola gli insegnò a leggere le targhe delle auto e le insegne delle attività commerciali. Lo stesso papà che lo iscrisse all’università, senza successo: Saverio sentiva che la sua strada fosse diversa. E dopo averla percorsa e aver ricevuto tante soddisfazioni, di recente firma il suo inizio di studi in Giurisprudenza, accompagnato dalla manina della nipotina Alessia. Quella manina che, quando sarà il momento, lo porterà a discutere la tesi finale. Quella tesi finale che chiuderà il cerchio aperto dai suoi genitori e che Saverio sente di dover chiudere per renderli orgogliosi.
Quella de I fuochi è una narrazione che va dove fa più male e proprio lì sceglie di restare perché, citando l’autore: «Se c’è una cosa buona del dolore, è la capacità di rinsaldare i rapporti tra le persone che si vogliono bene».
Edito da Vintura, il libro sta riscuotendo un apprezzabile successo. Ma per saperne di più, Saverio ci aspetta per le prossime presentazioni a Soverato sabato 7 giugno alle 18.30 nella libreria Non ci resta che leggere e venerdì 13 giugno alle ore 18.00 nella Libreria Punto e a capo di Catanzaro.