Il racconto

Un “viaggio” fra le paludi del dolore nel libro di Giuseppe Farina

L'autore del testo convive con la sclerosi laterale amiotrofica dal luglio 2016:  «Io mi sento abbastanza sicuro di non aver scritto per sanare le mie ferite, perché a questo mondo non posso più chiedere nulla»

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di Franco Laratta
10 novembre 2021
07:00

«Si dice che quando la vita ti costringe a ricorrere alla resilienza per sopravvivere, scriverne è terapeutico, perché rivivi il trauma per metabolizzarlo. Io mi sento abbastanza sicuro di non aver scritto per sanare le mie ferite, perché a questo mondo non posso più chiedere nulla. E quindi sono andato oltre, alla ricerca dell’anima». Giuseppe Farina dal luglio 2016 convive con una grave malattia, la sclerosi laterale amiotrofica, una patologia che, in poco tempo, azzera la funzionalità di ogni muscolo, fino a quelli respiratori.

In genere, tranne alcuni casi, le facoltà cognitive rimangono conservate, ma si perde la capacità di comunicare, che resta possibile solo attraverso un comunicatore. Come quello che sta usando Giuseppe.


La storia

A gennaio 2020, in coincidenza con un aggravamento della patologia che coinvolse la funzione respiratoria, rimise mano ai suoi appunti, con lo scopo di lasciare un memoriale alle persone care. Il segnale che fosse imminente la paralisi totale, indusse Farina ad iniziare un lavoro frenetico e maniacale di rielaborazione, per riuscire a terminare in tempo il progetto narrativo, il cui risultato divenne, però, altro rispetto ad una mera raccolta di appunti.

Il risultato è la pubblicazione di un libro, edito dalla casa editrice Luigi Pellegrini Editore, che ha ottenuto il patrocinio di Aisla Onlus – Associazione Italiana Sclerosi Laterale Amiotrofica - a cui verrà devoluto il ricavato della vendita dell’opera. Il narrato contiene anche un resoconto di una personale telefonata ricevuta, il 5 gennaio 2021, da Papa Francesco.

È una storia che ci “educa” quella raccontata da Giuseppe Farina. E ci invita a cambiare lo sguardo sulla vita. La malattia è un pretesto, faticosamente doloroso, che apre innumerevoli finestre di senso come se l’Autore stabilisse, fin da subito, un patto e un dialogo con i suoi lettori. Ed è in questa dialettica continua e incalzante che viene fuori l’anima dell’avvocato che ha fatto della parola e del pensiero la sua cifra esistenziale e che, pagina dopo pagina, non rinuncia mai ad esercitarla. Con forza e bellezza.
E nel dipanare i fili di una vita che “un giorno ti chiede un altro viaggio”, l’Autore, con lucidità chirurgica e un’analisi di scavo profondissima, ci consente di attraversare le paludi del dolore.

La testimonianza

«Quando finii di scrivere il libro fui assalito da mille dubbi», dice Giuseppe Farina. «Ero incerto se abbandonarlo in un cassetto e lasciare che il suo rinvenimento fosse del tutto casuale. Mi preoccupava il mio eventuale autocompiacimento, incompatibile con questi argomenti. D’altronde, avrei peccato di egocentrismo se non avessi ritenuto degne di condivisione queste riflessioni. Fu così che mi venne l’idea di affidarne le sorti ad un campione vario di lettori, anonimi tra di loro, da cui trarre definitivo incoraggiamento o rassegnazione. Con mio grande stupore accadde qualcosa che non mi aspettavo. In gran parte delle risposte era contenuta una sorta di necessità di solidarizzare con me andando oltre il quesito, per raccontarmi qualcosa di personale che evidenziava disagio o addirittura afflizione. In pratica la prova provata che il libro suscitava trasporto interiore. Ecco, mi dissi, il potere della narrazione, di aiutare gli altri a fare outing e a raccontarsi a se stessi. E fu proprio ciò che mi convinse che la sorte di quel manoscritto non mi apparteneva più».

Giuseppe di notte scriveva ad occhi aperti il libro nella sua mente, come se qualcuno glielo dettasse, e si stupiva di come le parole rimanessero fissate nella memoria senza alcuno sforzo. Poi impiegava alcuni giorni a trascriverle, digitando una lettera alla volta con il mouse su una tastiera virtuale presente sullo schermo, poiché all’epoca non aveva il comunicatore, ma gli funzionavano ancora indice e medio della mano destra. Con questo metodo riusciva a trascrivere mezza pagina al giorno, con il timore continuo di dimenticare. Ma non ha tralasciato nulla. Puntualmente, finito di trascrivere, di notte ricominciava a scrivere.

«Io mi sento abbastanza sicuro di non aver scritto per sanare le mie ferite, perché a questo mondo non posso più chiedere nulla. E quindi sono andato oltre, alla ricerca dell’anima».

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