C’è un’Italia che non finisce nei telegiornali, un’Italia che lentamente si spegne e lo fa nel silenzio. Non è solo un dato demografico, ma una diagnosi ufficiale: il nuovo Piano strategico nazionale per le aree interne parla apertamente di “spopolamento irreversibile”. Parole pesanti come un verdetto. Nei prossimi cinque anni più di mille borghi sono destinati a svuotarsi, molti dei quali nel Mezzogiorno e in particolare in Calabria. Non parliamo di luoghi astratti, ma di comunità vive, storie, tradizioni, economie locali che rischiano di diventare solo memoria.

Non un incidente, ma una scelta

Ciò che colpisce non è solo la dimensione del fenomeno, ma il modo in cui viene raccontato: come se fosse un destino inevitabile. In realtà, come osservano gli esperti di politiche territoriali, non si tratta di una catastrofe naturale, ma dell’esito di decenni di scelte politiche sbagliate o mancate.

Tagli a scuole, ospedali, servizi di trasporto e connessioni digitali hanno reso la vita nei paesi sempre più complicata. Chi resta spesso è anziano, chi parte non torna più. E così, mentre ci si concentra sulle metropoli, l’entroterra – che copre circa il 60% del territorio nazionale – viene lentamente considerato un costo inutile, una zavorra da accompagnare alla fine.

Come abbiamo scritto anche nell’articolo “Eutanasia di Stato per mille borghi: il Governo condanna a morte il Sud e la Calabria” l’antropologo Vito Teti lo descrive come una ferita che tocca la memoria collettiva: nei borghi non muoiono solo le case, ma i legami sociali, i mestieri antichi, la capacità di presidiare e proteggere il territorio.

Lo spopolamento ha effetti a catena: boschi non più curati diventano preda degli incendi, campi abbandonati smettono di produrre, scuole chiuse cancellano opportunità e creano nuove disuguaglianze. Ogni borgo che scompare è un pezzo di biodiversità culturale che perdiamo per sempre.

Non è un fenomeno isolato del Sud: anche alcune zone del Centro Italia colpite dai terremoti, nonostante le risorse del Pnrr e dei fondi di coesione, stanno vivendo la stessa parabola. La strategia nazionale per le aree interne, nata per invertire la tendenza, ha spesso fallito per ritardi, burocrazia e progetti mai decollati.

La vera novità, sottolineata da studiosi e associazioni come Uncem, è che lo spopolamento non è irreversibile. Ma servono interventi radicali: non solo incentivi economici, ma politiche di accoglienza mirata, come l’arrivo di nuove famiglie dall’estero in borghi oggi deserti, sostenute da programmi di integrazione e lavoro locale. Esperimenti di questo tipo esistono già, dal Piemonte alla Sicilia, e dimostrano che riportare vita è possibile se c’è una regia chiara e coraggiosa.

Altra chiave di lettura spesso trascurata è quella digitale: investire nella connessione veloce e nel lavoro da remoto potrebbe rendere questi paesi di nuovo appetibili a giovani professionisti che cercano qualità della vita. In un’epoca in cui anche le metropoli stanno perdendo abitanti verso l’estero, l’Italia potrebbe giocare una carta diversa: trasformare i borghi in luoghi di innovazione e sostenibilità.

Una responsabilità collettiva

Accadrà quello che noi immaginiamo se accada a meno che non faremo atrimenti.
Se continueremo a considerare inevitabile la fine dei piccoli centri, l’Italia che resterà sarà un Paese a metà, fatto di poche metropoli e di un enorme vuoto. Ma un Paese senza radici non costruisce futuro. Le Regioni non possono più restare in silenzio, e il Governo non può limitarsi ad accompagnare questi luoghi alla morte. Occorrono piani concreti, coraggio politico e la capacità di immaginare un’Italia diversa, dove la storia e la modernità si incontrano, e dove vivere in un borgo non significa essere condannati all’abbandono.

L’eutanasia di Stato dei nostri borghi non è ancora scritta. Ma per cambiarne il destino serve che tutti, cittadini, istituzioni e imprese, scelgano di non voltarsi più dall’altra parte.