Il sistema universitario italiano sta attraversando una fase di profonda tensione finanziaria e sociale. Alcuni atenei pubblici superano il limite del 20% stabilito dal D.P.R. 306/1997, secondo cui la contribuzione studentesca non può eccedere un quinto del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) fornito dallo Stato. Tale soglia non è solo una regola contabile, ma uno strumento di garanzia del diritto allo studio e di equilibrio tra autonomia universitaria e accessibilità economica. Superare questo limite significa, di fatto, trasferire sugli studenti i costi di un sottofinanziamento strutturale. È una violazione che non si esaurisce nel dato amministrativo, ma riflette una crisi più ampia del modello di università pubblica in Italia.

I dati e la dimensione del problema

Le analisi pubblicate da La Repubblica mostrano che almeno nove atenei hanno superato la soglia prevista. Il Politecnico di Milano raggiunge il 34,8%, seguito dall’Università dell’Insubria con il 27,9%, Ca’ Foscari Venezia con il 24,6% e Milano-Bicocca con il 22,6%. Seguono Padova, IUAV, Modena-Reggio Emilia, Pavia e Brescia, tutte oltre il 20%.

Diverse associazioni universitarie stimano che l’eccedenza complessiva si aggiri tra 68 e 92 milioni di euro. Le tasse medie annue oscillano tra 900 e 1.000 euro negli atenei pubblici, mentre nelle università private la media supera i 3.400 euro. Questi dati indicano una crescente dipendenza dei bilanci universitari dalla tassazione studentesca e un rischio di compressione della missione pubblica degli atenei.

L’autonomia universitaria, introdotta per garantire efficienza e competitività, ha accentuato le differenze regionali. Al Nord le università possono contare su un maggiore afflusso di risorse, mentre al Sud la minore capacità contributiva delle famiglie e l’esodo degli studenti impoveriscono ulteriormente il sistema locale. Il risultato è un divario che penalizza la mobilità sociale e accresce la disuguaglianza: nelle università meridionali le tasse medie si aggirano sui 400-500 euro, contro 1.400-1.600 euro al Nord.

Questo squilibrio non riguarda solo le cifre, ma l’essenza stessa del diritto allo studio: un’università che costa di più nelle aree più ricche e offre meno opportunità in quelle più fragili produce un circolo vizioso di esclusione e polarizzazione.

Il diritto allo studio e la crisi di legittimità

La vicenda dell’Università di Torino, condannata nel 2024 a restituire 39 milioni di euro agli studenti, è un segnale chiaro: quando il peso economico dello studio supera la soglia della sostenibilità, il diritto allo studio diventa un privilegio. Le associazioni studentesche avvertono che l’università pubblica rischia di trasformarsi in un’istituzione selettiva, dove il merito cede il passo alla possibilità economica.

Questo scenario mina la legittimità stessa del sistema universitario, che dovrebbe garantire mobilità sociale e formazione diffusa. La contraddizione è evidente: si celebra la centralità della conoscenza come motore di sviluppo, ma si riduce l’accesso a chi può permetterselo.

Il problema del finanziamento pubblico

La radice della crisi risiede nella stagnazione del FFO, che non cresce proporzionalmente ai costi reali di gestione e agli investimenti necessari in ricerca, didattica e servizi. Gli atenei compensano l’erosione dei fondi pubblici con l’aumento delle tasse studentesche, ma questo compromette la funzione di inclusione sociale dell’università.

Si crea così un paradosso: le università più forti, dotate di maggiori risorse e attrattività, tendono ad aumentare le tasse per finanziare nuovi progetti, mentre quelle più deboli restano indietro. Il risultato è un sistema frammentato, dove la competizione sostituisce la solidarietà e la logica di mercato prevale su quella del diritto.

Proposte di intervento

Per invertire questa tendenza, occorrono misure strutturali:

  1. Rafforzamento del finanziamento pubblico: incrementare in modo stabile l’FFO per ridurre la dipendenza dalle tasse studentesche e garantire sostenibilità.
  2. Riforma della no-tax area: ampliare la soglia ISEE nazionale, oggi ferma a 22.000 euro, e uniformare i criteri di esonero tra atenei.
  3. Trasparenza e accountability: rendere obbligatoria la pubblicazione dei bilanci e degli indicatori di spesa, con monitoraggi periodici.
  4. Piano di riequilibrio territoriale: investimenti mirati per le università del Mezzogiorno, con fondi dedicati a borse, infrastrutture e ricerca.

Il futuro dell’università pubblica italiana dipende dalla capacità di ristabilire un equilibrio tra autonomia e giustizia sociale. Le tasse universitarie non possono diventare il principale strumento di sopravvivenza degli atenei. Serve un nuovo patto tra Stato, università e studenti che restituisca senso e coerenza alla missione formativa del Paese. Difendere il diritto allo studio non è solo una questione economica: è una scelta politica e culturale. È il modo più concreto per garantire che la conoscenza resti un bene comune, non un privilegio di pochi.