La recensione

Blade runner, quarant’anni fa il film di Scott su un futuro mai accaduto

Nel giugno del 1982 debuttava in sala uno dei capolavori della fantascienza tratto dall’opera di Philip K. Dick “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”

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di Alessia Principe
27 giugno 2022
22:40

Il futuro di ruggine, laser e transistor transitò, per immagini, nel passato giugno 1982, mostrandoci quel che poteva essere il 2019 fantasticato da Philip K. Dick nel 1968. Sono trascorsi quarant’anni da allora, tre appena da ciò che non è stato mai. Qualunque sia la percezione di questo tempo che è scivolato via, tanto è trascorso dai fili in seta di sax scritti da Vangelis, dalla malinconia di polvere negli occhi di Sean Young.

“Blade runner” arrivò nei cinema del mondo bagnando con la pioggia le facciate brutali di architetture industriali, le meccaniche raffinate e quelle a buon mercato dei sobborghi popolati da umanità varia e derivata. Ridley Scott si appigliò a quella storia abbandonando il progetto di Dune. Strappò dalle mani dello sceneggiatore Fancher lo script che non piaceva neanche a Dick. Il film doveva essere qualcosa di diverso da una favola ambientalista. C’era del nero in fondo, doveva esserci strazio alle pareti. Bisognava che il dolore si sentisse nel tocco tra due mondi.


Uomo, macchine, in mezzo la coscienza, la volontà di essere, la rabbia del rifiuto da parte del creatore. Come in Frankestein di Mary Shelley, l’amore anche qui si tramuta nell’odio più puro e trasparente, materia dura del figlio nato per sbaglio che non può essere amato mai e va ucciso.

Fu David Webb Peoples ad accontentare Scott riscrivendo il soggetto. Sparì anche il titolo provvisorio, “Mechanismo”, sostituito da “Blade runner” (il cui nome trae ispirazione da “The Bladerunner”, un romanzo di Alan E. Nourse). Dall’incastro di circostanze, dinieghi e accecanti promesse nacque il film di fantascienza tra i capolavori del genere insieme a “2001 Odissea nello spazio” e “Solaris”.

Gli androidi di Scott, sono replicanti affamati di sopravvivenza, tormentati da una straniante gelosia per la vita umana che non gli dà pace. Come potrebbe. I fuggitivi dalle colonie extramondo, i costruiti mai nati davvero, elettrodomestici per un mondo di rottami che aspirava a schiavi sintetici, finiscono per essere corrotti dall’errore della loro stupefacente coscienza.

La vita gli si consuma addosso, logorandosi nella ribellione all’uomo, padre e ora assassino. Oggi, a pensarci, non si può che ripercorrere, con animo inquieto, la cronaca recente sul caso dell’intelligenza artificiale LaMbda (Language model for dialogue applications) “intervistata” da Black Lemoine, scienziato, guru, visionario, per alcuni un pazzo, allontanato da Google per aver colloquiato con quell’Ai svelandone il lato terribilmente sentimentale, umano, se non addirittura infantile.

Gli androidi di Dick

Resta immanente nel film la lezione di Philip K. Dick: abitare con crudele tenacia un mondo di violenza utopica pur di sopravvivere. Nel suo romanzo, che ispira la pellicola, “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”, il kipple (tradotto come palta, meglio come disgregamento, entropia) con cui lo scrittore copre il pianeta, rendendolo un museo di sabbia, rappresenta la conseguenza della degenerazione della vita biologica. Tutto è spazzato via, coperto dalla polvere respirata e tossita con sofferenza. Il poco rimasto appigliato alla Terra è un lusso da poveri. Gli animali veri, quasi estinti, la sola strada d’accesso alle emozioni diversamente racchiuse in scatole empatiche usate per professare l’unica fede: il mercerianesimo, incarnata da uno sconfortante messia lontano, vecchio e debolissimo.

In questo scenario di devastazione disperata, i cacciatori di teste si muovono per guadagnare il denaro necessario a rimpiazzare capre meccaniche con capre vere da mostrare ai vicini, suscitandone ammirazione e invidia. Il possesso del raro segna lo status e, soprattutto, garantisce un barlume di equilibrio mentale.

Ma c’è un nemico che agli uomini toglie il sonno: le macchine senzienti, quelle “più umane dell’umano”. A cadere sotto la tagliola dei cacciatori, sono i modelli Nexus-6, da ritirare prima che sia tardi, prima che la loro coscienza porti al cataclisma, all’estinzione della razza umana, perché ora loro vogliono, sanno di essere in quanto pensano.

Così si combatte per la vita sui due fronti: quello degli uomini e dei replicanti, simili contro pseudo-simili, in una guerra in cui la Terra è già diventata un cimitero d’elefanti. Scott restituisce quell’afflato di vita in un deserto di ferro e led, sigillando la leggenda del suo film nel famoso monologo che Rutger Hauer improvvisò del tutto o in parte. «Ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi». A dividere l'uomo Decker (Harrison Ford) dal capo dei ribelli Roy Batty (Hauer) ci sono i ricordi: i raggi B alle porte di Tannhäuser, le navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.

Il replicante confessa: ecco – dice all’uomo - abbiamo guardato le bellezze del cosmo di cui voi non riuscirete a godere mai. La nota di meraviglia prima del rimpianto che va inumidire il dramma e riunisce le due esistenze sotto lo stesso destino: «E tutti questi momenti andranno perduti come lacrime nella pioggia. È tempo di morire». L'estrema ingiustizia della fine dell'esistenza, che il noefita della vita non riesce a comprendere, lo ricongiunge al padre a cui toccherà la stessa sorte incomprensibile. Così è vivere come umani, così è morire come androidi che forse non sognano neanche pecore elettriche.

 

Giornalista
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