La recensione

“Il Prodigio” il film Netflix che rompe la quarta parete ma non sfonda

Ai primi posti nella classifica di gradimento del momento, l'opera di Sebastian Lèlio affronta la tematica dell'influenza (spesso nefasta) degli adulti sui bambini ma con un tocco dark

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di Alessia Principe
22 novembre 2022
09:15

Sembrava un prodigio davvero, nei primi tre minuti, invece è solo un calesse. Ben fatto, ben fotografato ma con quella punta di presunzione che ha rovinato tutto. Parliamo del film in testa alle classifiche Netflix: “Il Prodigio” (The wonder), esaltata opera dell’argentino Sebastian Lèlio. Cosa c’è che non va nel film? Niente. Il sonoro è giusto, i colori sono perfettamente bilanciati, il montaggio impeccabile, gli attori (su tutti Florence Pugh) convincenti, gli ambienti magnifici e ventosi. Cosa stona, cosa distrae? Anche la storia tiene. E allora? Cosa c’è di storto in una chiarissima strada dritta? Ci arriveremo tra un po’. Intanto diamo un’occhiata a questa scatola regalo che in pochi giorni ha fatto gridare al miracolo il popolo dell’on demand.

Il miracolo irlandese

Partiamo dalla storia, fuoco intorno a cui arde tutto il film. Siamo nella seconda metà dell’Ottocento. Su un treno lanciato verso uno sperduto villaggio irlandese, l’infermiera Lib Wright, col suo carico di pene personali, è chiamata a osservare lo strano caso dell’undicenne Anna O’Donnel. La bambina viene chiamata nel paese “il prodigio”, perché da quattro mesi non tocca cibo e non sembra soffrirne. Un comitato, composto da medici e amministratori (tutti uomini), dà l’incarico di venire a capo della faccenda a due donne: l’infermiera Wright e una suora del posto.


In quel luogo di brughiere e fango, dove i fili d’erba dei campi sono spazzolati da una tramontana perenne, gli abitanti vogliono il miracolo a tutti i costi, una propria santa da mostrare al mondo. La piccola sembra la Bernadette ideale, umile e devota. Rifiuta il cibo perché si nutre di «manna dal cielo», mormora preghiere tutto il giorno e chiede a Dio di donare il paradiso al defunto fratello. Ma non si percepisce un odore di santità in quel casolare diroccato, semmai il contrario. L’infermiera Wright scoperchierà un calderone tutt’altro che sacro.

La quarta parete

Il film si basa sul romanzo della scrittrice irlandese (adesso naturalizzata canadese) Emma Donoghue che ha collaborato alla sceneggiatura del film. Lélio si impegna davvero tanto a restituire un affresco scuro ben fatto e ci riesce anche, da un certo punto di vista, ma finisce per strafare. Il regista fa un passo oltre i bordi, abbatte la famosa quarta parete tra il pubblico e il palcoscenico, ma con un ariete di cartapesta.

Così assistiamo a un inizio spiazzante che ingolosisce parecchio. Il dietro le quinte del set ci serve l’immagine della finzione su un piatto smaltato: vediamo subito un’impalcatura che regge una casa di scena. Una voce off avverte che è un incanto (ma certo che lo è) e sottolinea come sia la storia la protagonista assoluta di questa messinscena (ça va sans dire), invitando lo spettatore a credere a questo artefatto cinematografico in cui gli attori sono immersi al punto di diventare personaggi. Insomma una bugiardina srotolata per insegnare cose ovvie.

Un gioco di prestigio inutile

A questo punto, un occhio attento, forse abituato a ben altre incursioni di rottura dello schermo/palcoscenico, capisce che il bluff è proprio dietro l’angolo. Questo gioco di prestigio, questa rincorsa al tocco originale, finisce per essere semplicemente una cornice che serve da incipit e da finale del film. Un escamotage fine a sé stesso che, cancellato, né toglie né aggiunge.

Quanto al resto, al cuore di tutto, la tematica sottesa è interessante. Declinata in un tempo universale, riflette il peso che il mondo adulto ha su quello dei bambini, su quante aspettative e desideri si riversino, come una diga, sul piccolo universo in crescita spesso annegandone i veri desideri per soddisfare propri progetti o solo per vanto. Nel narrare molto dilatato, spesso indugiante in dettagli solo squisitamente estetici, la vera storia nascosta sotto quella strombazzata, non riesce a deflagrare come avrebbe potuto. E quell’uccellino di carta che esce ed entra dalla gabbia, con cui la protagonista gioca, non è lo spettatore che entra ed esce dalla finzione (se accade qualcosa non funziona), ma è proprio la storia stessa che a volte cattura e a volte vola via troppo lontano.

Giornalista
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