La recensione

Madam C.J Walker, Physical e Betty Broderick: tutte le sfumature di donna in tre serie tra il rosa e il nero

Se dopo aver visto “Maid” non siete ancora sazi, ecco tre storie dal mondo streaming che non potete perdere: Madam, Sheila e Betty, fra nevrosi, aerobica, capelli e amor perduto (nel sangue)

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di Alessia Principe
20 ottobre 2021
09:30

In principio erano donne che non credevano affatto che nel prossimo giro di ruota sarebbe toccato a loro passare all’incasso. Le storie migliori sono quelle si inerpicano per parabole. Prima si resiste, poi si cade, poi fusoliera in alto e si vola (qualcuna esplode in quota).

Ci sono tre storie tutte al femminile, ma con tocchi di colore decisamente diversi, dal rosa al nero, da salvare nella lista delle serie da vedere. Nel mese che è tutto per “Maid” (su Netflix), la storia ispirata alla vita della scrittrice Stephanie Land che nel libro “Lavoro duro, Paga Bassa, e la voglia di sopravvivere di una Madre” racconta dei due anni infernali come domestica nelle case di ricche famiglie americane, ecco altri racconti che dell’universo femminile catturano anche tante ombre.


Tutte queste protagoniste sono inciampate un po’ nel destino che non è stato generoso, un po’ nella convinzione di meritare un matrimonio pessimo con un uomo soporifero, un po’ sono state vittime delle circostanze, dell’amore e di tutto il caravanserraglio intorno.

“Self Made - La vita di Madam C. J. Walker” (Neflix)

La miniserie Netflix, con il premio Oscar Octavia Spencer, celebra la storia (vera) della prima grande imprenditrice afroamericana: Madam C. J. Walker. «Se al mondo c’è tanta bellezza, perché in me ce n’è così poca?» se lo chiede Madam al secolo Sarah Breedlove, mentre strofina i panni al lavatoio per un dollaro e cinquanta l’ora. Sta perdendo tutti i capelli a causa dei detersivi che usa a tutte le ore per pulire i capi delle ricche signore, è sola, è un’afromericana che cerca di tirare a campare nell’America che sta per salutare l’Ottocento.

«Orfana a 6 anni, moglie a 14, madre subito dopo e vedova a venti». Comincia così l’adattamento per il piccolo schermo della vita di quella che passerà alla storia come la “signora dei saloni bellezza”, paragonata a Esteé Lauder e Coco Chanel, che costruì un impero convincendo le donne che comprare il suo prodotto era come comprare un pezzo della sua sicurezza e determinazione.

Fece una fortuna e il mondo la riconobbe come una pioniera. Partì vendendo una latta con una pomata per far ricrescere i capelli e morì milionaria e filantropa. La formula del suo Wonderful Hair Grower, esposta allo Smithsonian National Museum of African American History & Culture, non era solo un preparato per ordinare e prendersi cura dei capelli delle donne afro, era una dichiarazione d’amore nei confronti di un mondo femminile fino a quel momento trascurato, maltrattato, a cui nessuno parlava di futuro figuriamoci di bellezza.

Physical (Apple Tv)

Qui siamo nel pieno degli anni Ottanta. Sì, ruggenti, coloratissimi, al ritmo di Laura Branigan, Patrick Cowley, Depeche Mode, Exposé. C’è Sheila Rubin, la splendida Rose Byrne, sposa semi infelice di un docente con poco talento che cerca di riciclarsi come politico.

Ad accendere la sua vita c’è solo una cosa: l’aerobica, freccia al suo arco per combattere una guerra contro il cibo, croce e delizia. Magra come un fuso, con i fianchi fasciati dai body in lycra lucida, Sheila ha due voci: quella con cui parla al mondo esterno e poi quella interiore con cui si fustiga e rimprovera per gli eccessi che si concede davanti al frigorifero quando nessuno la vede. Si odia, si ama, si accarezza e si umilia. A caccia della perfezione fisica non fa che ripetere due frasi: «Andrà tutto bene» e «questa è l’ultima volta» quando si ingozza fino a scoppiare prima di riversare il suo peccato giù per la tazza del gabinetto.

Bulimica, nevrotica quanto basta, ha un sogno: sfondare grazie alla sua passione per la ginnastica. Intorno a lei il mondo fluo di un decennio di cui resta molto più di un paio di spalline imbottite.

Penna della serie è Annie Weisman (producer di Desperate Housewives), mentre a dirigere il pilota c’è il Craig Gillespie che raccontò sontuosamente la storia (vera) di un’altra donna, la ginnasta Tonya Harding (interpretata da Margot Robbie). Da guardare con la giusta dose di cinismo con gli scaldamuscoli ai polpacci.

The Betty Broderick Story – Dirty John (Netflix)

Questa è la storia vera di Betty Broderick, un tempo moglie perfetta e poi perfetto caso di cronaca nera americana. È il racconto di un matrimonio felice, molto felice, perfetto come solo possono esserlo gli inizi che chiamano finali tragici, poi precipitato nel vortice infernale del tradimento e della follia.

Betty è giovanissima, ha dei sogni, è molto bella, dà tutto all’uomo che ama, Daniel, che grazie al suo appoggio diventa uno dei più importanti avvocati di San Diego nei primi anni Ottanta. Ma il matrimonio dopo più di un decennio scricchiola. Betty cerca di resistere al sospetto e continua la sua vita di perfetta donna di casa, tutta merletti, cene di beneficienza, the con le amiche.

Questo finché Dan non confessa: sì, è innamorato di un’altra donna e va via di casa. Il nido della coppia diventa il teatro di un vecchio amore ormai a pezzi.

Questo dà il via a una catena di eventi che travolgerà la psiche debolissima di Betty. Il suo mondo di zucchero finirà dritto nella pattumiera e poi dietro le sbarre di una prigione.

La miniserie fa parte di un progetto che include due stagioni del ciclo “Dirty John” (Netflix) e valse all’attrice che impersona Betty, Amanda Peet (davvero strepitosa) il Golden Globe. Nel cast anche Christian Slater (lo odierete), nei panni dell’algido Daniel Broderick. Quello che i giornali all’epoca (siamo nei primi anni Ottanta) definirono “il peggior divorzio di San Diego” fece davvero molto discutere, spaccando l’opinione pubblica, aprendo il dibattito sulla tutela delle madri nelle cause di divorzio.

 

 

 

 

Giornalista
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