La recensione

Oppenheimer, quando il rimorso diventa una bomba più potente di quella atomica

Il film di Cristopher Nolan ci porta all’inizio della fine del mondo, tra il maccartismo, lo spauracchio comunista e la scienza che alla fine piega la testa e si gode lo spettacolo

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di Alessia Principe
24 agosto 2023
09:36

Cosa non è Oppenheimer. Non è un film di fantascienza. Non è un film che si diverte a sfilacciare la trama del Tempo e a farne un tappeto volante. Non si gioca con Oppenheimer, il cervello non fuma come in Tenet, gli occhi non si inumidiscono come in Interstellar. Oppenheimer non è il guizzo di Memento, non è la matassa di Inception. È immerso nella guerra ma non è Dunkirk. Oppenheimer non è quello che credete. Paradossalmente, per certi aspetti, il film nolaniano più vicino è "Il cavaliere oscuro", non per l'azione, ma per il dubbio. Oppenheimer non è la locandina. Non è un fuoco d'artificio. Non si ribaltano auto, non si viaggia agli albori del mondo o sotto il mondo, nemmeno attraverso. È tutt’altro. È la morale che si batte in strada con il potere e si fa trovare col fucile in mano, è la scienza che abbassa la testa alla vanità. In centottanta minuti, avrete solo domande e poche risposte, forse nessuna.

Il film ci presenta la storia di un uomo complicato, sofferente, con uno stigma in fronte e il senso di colpa nascosto da un cappello a tesa bassa. Non è un eroe, non è nemmeno un carnefice. È difficile odiarlo ma comprenderlo è un brutto ruolo da ricoprire. Si fa fatica a coltivare la rabbia guardandolo, perché il sospetto che l'orrore fosse necessario alla pace, è una mano sulla spalla appoggiata con leggerezza, come uno sconosciuto gentile che ha da dire qualcosa di buono che ci riguarda. O così promette. Mentendo.


Chi gioca a dadi con Dio?

"Oppenheimer" è la storia di come il mondo stava per finire, nello spazio di rischio compreso tra uno zero e una virgola, di come potrebbe finire. Non è un film d’azione, è un film processuale, con carte e riferimenti e intarsi stilistici nel mezzo, che lo rendono un’opera e non un biopic semplice-semplice. È la storia di Robert J. Oppenheimer, dove J. sta per nulla, passato alla storia come il "distruttore". 

Dunque chi era l’uomo che solo Cillian Murphy poteva incarnare, per fisionomia e fissità? E come ha convinto un pool di menti illuminate a costruire un’arma di distruzione di massa poi lanciata, con orgoglio presidenziale, su Hiroshima e Nagasaki, due disgraziate città del Giappone, scelte per puro caso da un dito che scorreva sulla cartina? Basta a giustificare una brutta azione, la prospettiva di un incerto male maggiore? O la scienza, infine, è fatta da uomini curiosi di aprire il trenino per vedere come funziona la natura e la sua potenza, e per questo disposti anche a tacitare una parte della coscienza che dice «no, è sbagliato giocare a dadi con Dio»?

L'ascesa e la caduta

Non è difficile capire perché il regista inglese, sia rimasto tanto ammaliato dal Fisico teorico, giunto in vetta e poi precipitato giù. Delle parabole umane sono pieni cinema e cimiteri. Dalla depressione al matrimonio, dal trasloco in Europa al ritorno in America, dalle amicizie comuniste al ruolo chiave nella costruzione della bomba, Oppenheimer resta sempre una figura in controluce perché il suo tormento è evidente. Una metà è illuminata, coscienziosa, generosa anche, metà è inghiottita dal buio sulla ragione.

L’odio contro i nazisti, ha fatto da miccia e lo ha convinto che fosse giusto distruggere per costruire e bagnare la pace nel sangue. Ma la morte non si ferma, quando il vampiro è sveglio nessuno è al sicuro. Per il governo, sconfitti i nazisti restava il Giappone da piegare. Sconfitto il Giappone ecco la minaccia russa pronta a replicare la medesima arma e forse, chissà, puntarla contro Washington. C'è sempre un nemico da combattere e una scusa da tirar fuori per mascherare la semplice voglia di primeggiare.

Scavando nei quanti, negli atomi, nelle particelle d’uranio, nella formula di Einstein sull’energia e la massa, sulle pubblicazioni di meccanica quantistica, nelle lavagne, nelle equazioni, la scienza s’era illusa di poter controllare l’arma, sottrarla alla politica, a un certo punto, agitando lo spauracchio dell’Apocalisse. Forse credeva di aver raggiunto un peso specifico tale da poter contare qualcosa nel grande Risiko della conquista. Sbagliava, come sappiamo.  

Nolan confeziona un film politico, accurato, diverso dai suoi precedenti, in cui la componente procedurale (in bianco e nero) detta il ritmo della storia e apre al racconto del passato: dalla genesi dell’idea, all’epilogo devastante. Il cast è di tutto rispetto: da Florence Pugh a Emily Blunt, Robert Downey Jr, Kenneth Branagh e Gary Oldman (la lista è lunghissima), un cielo pieno di stelle in cui ne brilla in particolare una, quella di Murphy, solitario ma non cinico, volto di una contraddizione che il Time consacrò in copertina con il titolo di “padre della bomba atomica”.

Dopo la vetta splendente di fama, per Oppenheimer cominciò la discesa verso il basso. E fu rapidissima. Gli scrupoli non fanno guadagnare mostrine, solo fango. Oppenheimer, dopo l’estromissione dall’incarico governativo, diventò il fantasma di sé stesso (per approfondire c’è un bel documentario su Sky che si chiama “To end all war: Oppenheimer & the atomic bomb”, da vedere dopo la visione del film per evitare anticipazioni sulla trama). Il dolore e il rimorso, per quanto aveva contribuito a realizzare, si leggono nelle sue guance scavate e negli occhi spiritati che ruota quando qualcuno gli parla di quei momenti, quando la scienza il 16 luglio del 1945, applaudì alla colonna di fuoco che incendiò il deserto del Nuovo Messico, e passò dalla parte nera del fiume. Lo scienziato, in seguito, durante un convegno a Boston disse una frase, che suonò come condanna, come la cacciata da un Eden scarnificato: «I fisici hanno conosciuto il peccato; e questa è una conoscenza che non si può perdere». 

Giornalista
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