Perché non farò mai il presidente e perché non dovreste farlo neanche voi

Ma perché tutta questa corsa affannosa per agguantare una poltrona che non si dovrebbe augurare al peggior nemico? Cerchiamo di capire, punto per punto dove comincia la missione e dove finisce l'harakiri

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di Alessia Principe
22 settembre 2021
17:00

Fare il presidente di una Regione è un incubo. Un incubo da cui ti svegli la mattina e pensi: meno male, l’ho sognato. Per questo, nel bel mezzo dell'attuale circo elettorale, i candidati li vedo come alieni venuti da un’altra galassia. Convinti di trovare un pianeta vergine, si trovano ad atterrare sul parcheggio di un centro commerciale il giorno che si ritirano i punti premio per le lenzuola Bassetti. Qualcuno dovrebbe avvertirli. Magari tornano indietro.

La maledetta rotonda della Cittadella

C’è da trasferirsi in un ufficio nuovo, scegliere la parete attrezzata, convincere i sindacati che il camion Ikea è lì per chiedere indicazioni perché ha sbagliato strada alla rotonda; tocca fare amicizia con quelli del piano alto e sperare sia gente simpatica con la passione del Burraco online (che le giornate sono lunghe) e che t’insegni che le delibere non vanno lette tutte-tutte, basta saltare la parte di VistoConsiderato, Tenuto conto che e andare direttamente alla riga tratteggiata da firmare.


Chietelo al Presidente. Ah, sono io

Poi bisogna testare la macchinetta del caffè e vedere se fa orzo e ginseng già zuccherati; c’è da tagliare nastri e informarsi sul perché, mettersi in macchina e fare chilometri solo per vedere se questi lavoratori licenziati in massa t’hanno scambiato per il presidente o per la Madonna di Medjugorje, pensando: ma che diamine? Ancora lavori su questa autostrada.

Ricordarsi di essere il presidente, chiamare il segretario, che chiama i responsabili dell’Anas, che vogliono una tavola rotonda. Aprire la tavola, scegliere il vino (locale) chiamare tutti: parlare, ascoltare, capire che non c’è nulla da fare, convocare una conferenza stampa e dire, al massimo, che ci stanno lavorando (sai che novità). 

Prendere aerei, andare a Roma (tutti presidenti ci vanno), litigare con quelli che ti hanno fatto eleggere perché sono scontenti, litigare con quello che ti ha detto che quell’altro sta aspettando ancora una poltroncina, pure una seggiola, che sta tardando. Fare nuovo ordine sul sito Ikea.

«Presidente, ancora mobili nuovi?».

«Togliete la rotonda lì, fate tutto dritto, sennò ci riempiamo di Kallax».

Scorrere l’elenco dei responsabili prima di te e dire alla popolazione che è colpa loro, dei Mesopotami, se le cose proprio non vanno.

Organizzare dirette su Facebook (ah no), venire bene alle foto, interessarsi di tutto: edilizia, pulizia, strade, politica, partiti, scuole, cultura (vabbè, se resta tempo), università, ambiente, fiere del vino e del pane e della cipolla, di enti, partecipate, fondazioni, acqua, fuoco, terra e aria.

Ricevere, smistare, delegare e infine tornare a casa. E c’è la cena nel microonde. Una vitaccia.

Perché lo fai, disperato ragazzo mio?

Accantoniamo per un momento l’appunto più semplice: lo fanno per soldi. Fingiamo che non esista questa variante economica. Fingiamo che chi corre (che poi perché corre, è un anno ormai che non si parla che di queste elezioni, pensa se passeggiavano) lo fa per un altro motivo e chiediamo: perché lo fai?

Andiamo per ordine, andiamo per slogan, che in fondo dovrebbe essere tutto lì, nella sintesi pubblicizzata per convincere la gente a mettere la benedetta preferenza, e procediamo a esclusione.

Gli slogan

Oliverio: Si può fare

Ma cosa?

Effettivamente potrebbe anche piovere.

Luigi De Magistris: La Calabria che cambia

Nella forma e nel colore... è in trasformazione.

Amalia Bruni: Diamoci del tu

Ok, Amalia.

Roberto Occhiuto: La Calabria che l’Italia non s’aspetta

Non lo sentite anche voi il fiato sospeso dell’Italia?

To do list

Niente, con gli slogan non abbiamo chiarito bene le ragioni della missione. Andiamo per obiettivi. Sì, gli obiettivi. 

Rimediare agli errori del passato

La maggior parte degli aspiranti di quel passato hanno fatto parte, quindi è come dire: rimediate a quello che ho fatto anche io. Se non sei riuscito a migliorare le cose allora non è cosa per te, se ci sei riuscito ti tocca cambiare, non dico lo slogan, ma le pillole o almeno il dosaggio.

Non fare vincere gli altri 

La classica questione di principio che ci segue dalla scuola elementare. È l’amichetta che dice alla compagna: se vai al compleanno di tizio che mi tira le trecce quello poi ti rompe il compasso. Di solito finisce con un giro di veleno sulla chat delle mamme su WhatsApp. In campagna elettorale con uno Spritz e una mangiata di pesce.

Migliorare la sanità 

Basta non ammalarsi. Semplice.

Migliorare l’occupazione

Più facile migliorare la disoccupazione. Se uno ha una risorsa che si utilizzi.

Riportare i giovani talenti nella loro terra

Chiedere prima se questi vogliono tornare.

Snellire la burocrazia.

O prevedere la pensione anticipata per quelli attaccati al telefono in attesa di parlare con l’ufficio giusto.

Rilanciare il turismo 

E il concetto di Pos, che non è una bestemmia, ma vallo a spiegare a quello del bar del lido.

Promettere nuovi ospedali

Così, a casaccio. Funziona sempre.

Combattere la malavita

È tutto qui il tuo potere, Saruman?

Epilogo

Quindi, tutta la mia solidarietà a chi alla fine prenderà sul groppone questa gran rottura di scatole. In generale, non lo dico io, lo dice Indiana Jones, ricordatevi che la X non è mai il punto dove scavare.

Giornalista
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