Cannes d’antan

Pulp Fiction, trent’anni dal film che cambiò il modo di scrivere il cinema

Nel 1994 il capolavoro di Quentin Tarantino a sorpresa vinse la Palma d'Oro sulla Croisette. Ancora oggi la pellicola è uno stracult di battute fulminanti ed emblema di un cinema "crash" senza eredi

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di Alessia Principe
22 maggio 2024
17:03

Clint Eastwood, presidente della giuria a Cannes, trent'anni fa esatti, si alzò in piedi nel suo completo elegante, giacca bianca, farfallino nero. Aprì il biglietto che teneva fra le mani e lesse, facendo diverse pause, il nome del vincitore: «The Palm d’or goes to Pulp Fiction» («La Palma d’oro va a Pulp Fiction»).

Le Iene aveva conquistato il pubblico come un amore a prima vista. Uscito nelle sale nel 1992, forte di un cast corale straordinario (Harvey Keitel, Tim Roth, Steve Buscemi, lo stesso Tarantino), fece capire subito che in città c’era un nuovo sceriffo. Grottesco, black humor incastonati nella violenza e nella sperimentazione, fecero saltare sulla sedia spettatori e critici (molti dei quali storsero il naso). Il budget del film era così basso che la giacca di Eddie il Bello, uscì fuori dal guardaroba personale dell’attore.


Da "Le Iene" a "Pulp Fiction"

Non trascorrono neanche due anni, ed ecco che Tarantino sforna Pulp Fiction, con soldi e mezzi a disposizione un po' più generosi (8 milioni di dollari) e una bella truppa al seguito (Samuel L. Jackson, Harvey Keitel, Uma Thurman, John Travolta, Bruce Willis). Eppure, al principio, sembra che la strada per il primo ciak sia tutt'altro che in discesa. La TriStar Pictures legge in prima battuta la sceneggiatura e la rifiuta giudicandola «troppo fuori di testa». La Miramax di Harvey Weinstein, invece, la agguanta e decide di produrre il film. Nel discorso di premiazione a Cannes, Tarantino ringrazia con grande affetto l’ex numero uno del cinema Usa, anni prima della sua rovinosa caduta in seguito alla condanna per violenze sessuali.

La resurrezione di Travolta

Il titolo “Pulp Fiction” in italiano è pressocché intraducibile. Negli States durante gli anni Trenta con questa espressione si indicavano le pubblicazioni cartacee di poco valore, stampate su carta scadente, che raccoglievano storie horror, mystery, sci-fi o fantasy. Il film tolse dall’oblio John Travolta (che fu la ruota di scorta di Michael Madsen, impegnato su un altro set) rinato grazie al personaggio di Vincent Vega, come un Lazzaro morto e risorto. Miracoli del genere si contano sulla punta delle dita e riescono solo ai registi di razza con l'occhio lungo (Darren Aronofsky lo fece con Mickey Rourke, Inarritu con la stella appannata di Michael Keaton, Joel Schumacher tolse dal semioblio Matthew McConaughey).

Jules: E come lo chiamano?
Vincent: Lo chiamano "Royale con formaggio".
Jules: "Royale con formaggio"!
Vincent : Già!
Jules: Come lo chiamano il Big Mac?
Vincent: Be', il Big Mac è il Big Mac! Lo chiamano "Le Big Mac".
Jules: Le Big Mac! E come lo chiamano il "Whopper"?
Vincent: Non lo so, non sono stato al Burger King. Sai cosa mettono sulle patatine in Olanda al posto del ketchup?
Jules: Cosa?
Vincent: La maionese.

Il cinema d’exploitation

Nella sceneggiatura, Tarantino decise di inserire, oltre ai 265 “f*ck”, anche svariati riferimenti al cinema d’exploitation degli anni Settanta e Ottanta (che contava sottogeneri come il Sexploitation, Shock exploitation, Bikexploitation) cioè quel filone cinematografico che usava con compiacimento, quasi sadico, temi che incitavano al sangue, al cannibalismo, alla violenza «perché prima di apprezzare il latte, dovrai bere un sacco di latte rancido» disse Tarantino nel libro-intervista di Gerald Peary. Pulp Fiction fu il suo latte caldo della buonanotte.

La musa Uma

Il film lanciò nel firmamento delle star Uma Thurman, che diventò poi la sua musa in Kill Bill (sodalizio che durò fino alla famosa scena dell’incidente che segnò una lunga rottura fra i due). La sceneggiatura, frutto dell’ingegno di Tarantino e del suo partner in crime Roger Avary, ha un ritmo inarrivabile che si sublima nei dialoghi degni della migliore narrativa americana. Venne scritta a penna e poi dattilografata dall'amica Linda Chen di ritorno da Amsterdam. Come forma di gratitudine, a uno dei personaggi del film venne dato il nome di Honey Bunny, in memoria del defunto coniglio della Chen.

 

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I leggendari inizi

Anche se cronologicamente Pulp Fiction è la sua opera seconda, l’idea del film è ancora più antica de Le Iene. Tarantino, alla fine degli anni Ottanta, lavorava come commesso in un negozio di videonoleggio nella periferia di Los Angeles, il Manhattan Beach Video Archivies. I suoi trascorsi nel retrobottega a divorare una videocassetta dopo l’altra, fanno parte della leggenda che aleggia intorno al regista di Knoxville che è riuscito a guardare al passato, riscrivendo suggestioni cinematografiche d’antan e trasformandole secondo un gusto personale attraverso una fusione di generi. All’epoca Roger Avery era un collega di bancone e i due non facevano che trascorrere ore intere a discutere dei film che vedevano. Il passo decisivo fu quello di mettere su carta le idee che saltavano fuori da quelle discussioni, nel modo esatto in cui ne parlavano. «Non fu una grande differenza», raccontò poi Avary: «Dovevamo solo scrivere quello che tanto già ci dicevamo». L'idea di scrivere un film su criminali, partendo da situazioni abbastanza standard per poi rivoltarle come un calzino, era già nella mente di Tarantino.

Film "crash"

Il film segue tre filoni che quasi si confondono creando un miscuglio da sorbire a fondino come una buona tequila. Tarantino inverte il flusso degli eventi, riottoso a un disegno lineare di script, frammenta le storie mantenendo però chiara l'idea dell'arrivo. Niente è a caso, neanche la musica. «Una delle cose che preferisco nel raccontare storie come faccio io, è dare forti emozioni: lasciare che il pubblico si rilassi, si diverta e poi all’improvviso… boom!, voglio trasportarli improvvisamente in un altro film», divertissement che Tarantino ripeterà con gioia soprattutto in quel “Dal tramonto all’alba” insieme all’amico Robert Rodriguez (regista in seconda in Pulp Fiction, nelle scene in cui compare Tarantino), emblema di quel cinema “crash” che gode nel confondere lo spettatore regalandogli momenti di sangue, d’ironia e delusioni. Un po’ come quella che si trovò a vivere in prima persona Tarantino stesso, quando alla fine delle riprese scoprì che la sua Chevrolet Chevelle Malibu del 1964 era stata rubata. Ma forse anche questo fa parte della storia, e se non della storia, della leggenda.

Giornalista
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