Rumore bianco, la società ipocondriaca di DeLillo dal libro allo schermo

É su Netflix l'ultimo film di Noel Baumbach che sfida l'autore italoamericano e trasforma il suo romanzo di culto in un'opera per lo schermo

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di Alessia Principe
4 gennaio 2023
13:12

Il rumore bianco tradotto in immagini dal regista Noel Baumbach, più che un buzz opaco di fondo è una palette di tinte per etichette, mode d'emploi plastificati da incollare sui barattoli del discount, un condimento di verdi petrolio e gialli cannella, che segna i passaggi dal grotesque al dramma d’introspezione, dal comico all’iperreale in una storia più vicina a noi di quanto si pensi. Nei colori della cronaca che tingono le nostre vite, mai ancorate a un unico genere ma crashanti da uno all’altro nell’arco anche di una sola giornata, il film (ora disponibile su Netflix) tratto dal romanzo di culto di Don DeLillo, restituisce come può le sinfonie del romanzo, traendone gli spunti più saporosi e declinabili in cinematografia. L’estetica, sullo schermo, diventa uno dei personaggi principali: esprime, dialoga e a volte monologa e supporta il valzer dei ruoli che si susseguono. Negli accostamenti e nel cromatismo si percepisce forte e chiaro perché Baumbach e Wes Anderson siano così legati, nella vita e nelle collaborazioni: entrambi hanno una cura maniacale per certe ambientazioni e tagli fotografici, scenografie e styling.

Film rischiosissimo, va detto, quello dell’autore di “The Meyerowitz Stories”, perché riportare il senso di un’opera complicata, strutturalmente ma soprattutto per le folgorazioni letterarie con cui lo scrittore italoamericano intinge tutte le pagine, era impresa quasi suicida. DeLillo pittura col pennello fine, la società americana della prima metà degli anni Ottanta, affidando all’osservazione del professor Jack Gladney, il compito di trasferire il pensiero dello scrittore dall’occhio del docente, famoso per il suo corso di studi su Hitler, a quello del lettore (ora spettatore) frustando alla schiena la società dei super consumi, delle ossessioni compulsive, dei vuoti a perdere, dei market scaffalati di nevrosi, delle discussioni stra-filosofeggianti che scadono nel gretto, dell'ipocondria, delle malsane abitudini nelle emergenze, dell’accumulo seriale che promette sicurezza e protezione.


DeLillo guarda, giudica e fulmina. Noel Baumbach, che ha raccolto i pezzi di vetro del romanzo, ha composto una finestra da cui si può spiare una parte di quel pianeta letterario che appartiene a ciascuno anche oggi, a 40 anni dall'uscita del romanzo. Per dare un'idea del ritrattista, così scrive DeLillo: «Il secondo motivo di eccitazione era la neve. Neve abbondante prevista per il pomeriggio o in serata. Aveva fatto uscire allo scoperto le masse, chi temeva che presto le strade sarebbero state impraticabili, chi era troppo vecchio per camminare con sicurezza su neve e ghiaccio, chi pensava che la tormenta lo avrebbe isolato in casa per settimane e mesi. In particolare erano le persone anziane a essere sensibili alle notizie circa le calamità incombenti, diffuse attraverso la TV da signori seduti in atteggiamento grave davanti a mappe radar digitali o a pulsanti fotografie del nostro pianeta. In preda a frenesia coatta, si precipitavano al supermercato per fare provviste prima dell’arrivo del fronte di aria fredda. (…) I vecchi comperavano in preda al panico. Se la tv non li riempiva di furore, li lasciava mezzi morti di paura. Parlavano tra loro a bassa voce nelle file alle casse. Bollettino del traffico: visibilità zero. Quando arriva? Quanti centimetri? Quanti giorni? Diventavano riservati, sfuggenti, sembravano voler tenere nascoste agli altri le notizie piú recenti e peggiori, sembravano combinare la fretta con la furbizia, cercavano di correre fuori prima che qualcuno notasse la mole dei loro acquisti. Accaparratori in tempo di guerra. Pieni di bramosia, di sensi di colpa».

L’autore rifinisce un quadro degli strati sociali e li impila, l'uno sull'altro, ordinandoli per paranoie. Per evocare sullo schermo la storia, il regista richiama in scena il suo preferito, Adam Driver, che già aveva diretto da protagonista in “Storia di un matrimonio”, che qui raggiunge l’apice, meglio che nel precedente film, perché riesce nel non facile compito di dare credibilità a un personaggio caratterizzato da un profilo di calma eccessiva, tendente all'understatement. Un tono dimesso che cela la grande paura della morte (il vero convitato di pietra) che deflagra dopo l’unico episodio d’azione che scombussola la vita della sua numerosa e variegata famiglia. Un disastro stradale cagiona una nube tossica, potenzialmente letale, e costringe la cittadina all’evacuazione. Basta questo a far risvegliare da una collettiva anestesia, quella permette di dimenticare che ogni passo avvicina alla fine, gli animi inquieti. E se per molti il sedativo si riattiva dopo poco, permettendo di vivere, amare, gioire, per altri il tarlo continua a rosicchiare il velo di incoscienza salvifica. 

Così è per la moglie del professore Gladney (interpretata da Greta Gerwich, attrice, regista e compagna di Baumbach nella vita) persa nel dramma di sapere che tutto è a un passo dalla lapide. E mentre le grandi domande legate a dove siamo, perché siamo e dove stiamo andando, sfiorano le teste come aerei fuori rotta, lei sussurra come sia difficile immaginare la morte a un certo livello di reddito, quasi a cercare una via d'uscita possibile all'inevitabile che ci accomuna tutti. Intanto, però, si va avanti, l'emergenza cessa e tutto riprende come se nulla fosse: si riempie il carrello, si chiacchiera sui massimi sistemi, si fa colazione con le frittelle, non se ne esce migliori ma sempre uguali. E il rumore bianco resta ancora lì, sul fondo, come un phon sempre acceso che non deve scaldare ma solo farci compagnia.

 

Giornalista
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