La recensione

Succession: la serie sulla famiglia Roy è un capolavoro

L'ultima stagione incolla gli spettatori alla sedia in un crescendo rossianiano arricchito dalle sontuose musiche di Brittel. Semplicemente: non si può perdere

73
di Alessia Principe
22 dicembre 2021
10:55

Una sontuosa suite per violoncelli su un pasto di selvaggina. Succession non è una serie come le altre, non lo è per la scrittura, il girato, i fuochi che cambiano, gli scatti in avanti della macchina da presa che si fanno accenti e interpunzioni.

Si presenta come una entrée di Adagio che prepara le mascelle a triturare ogni vittoria e trasformare la soddisfazione in altro appetito. È sempre l’ora della caccia tra le mura dei Roy. Cadono denti da latte per far posto a canini neanche troppo affilati in una casa dal sapore coloniale, dove il vento che arriva è quello spazzato dalle eliche dei jet privati, il lusso è noia quotidiana, il sesso un accessorio neanche troppo interessante, l’idiozia una consuetudine che va di pari passo al nonsense.


La guerra (grottesca) per il trono

In un tappeto disegnato da violini e disagio, dal contrabbasso che spinge di sotto con la frustrazione della profondità in un oceano di acuti, si muove la vita dei membri di una potentissima famiglia americana guidata dal leone Logan, Sole intorno a cui volteggiano, bruciandosi le penne, i quattro figli: Siobhan, Kendall, Roman e Connor.

Che Succession non fosse una serie come tutte le altre s’era compreso da tempo e da piccoli dettagli, che sono sempre gli anfratti preferiti dal diavolo, prim’attore di ogni movimento degno di nota. L’opera a puntate di Jesse Armstrong (in onda su Sky) è un rondò in cui il demone si diverte ed è vestito elegante, unghie lunghe e ben curate, eloquio sopraffino e seduzione acuminata come nei racconti elevati di letteratura e poesia, che poi s'infervora e maleodora all'improvviso.

Nella storia si gira nelle variazioni sul tema centrale e intorno a un padre che risucchia, attira solo per respingere e godere del ritorno dei figli prodighi, neanche tanto accecati, più ammaliati da un potere più grande di loro che nessuno può gestire ma che tutti vogliono possedere.

Il diavolo veste Logan

Ma resta il diavolo, dicevamo, il padrone di casa, colui che presenta l’orchestra donando la gloria dell’assolo anche al triangolo salvo poi soffocarlo e travolgerlo nella grotta duratura dei tamburi. La sinfonia vera è diretta dalla classica scritta da Nicholas Brittel. Un trionfo di elementi polifonici, policromi, che seguono la storia abitandola di arie d’altri tempi. La musica diventa personaggio e narratore. Così, quando ormai si è a un passo dalla sconfitta di uno dei felloni nel circo del sabato, sale la schiuma dell’armonia fino a squassare i giochi, si spezza in mille pezzi per poi chiudersi e mordere in sottofondo.

Opening credit ipnotici

Gli opening credit sono favolosi (ispirati all’incipit del film “The Game”) forse tra i migliori in assoluto (qui il video), da soli raccontano in un minuto e mezzo tutto un mondo che si nasconde a bordo piscina, tra un’infanzia dorata e un padre che i figli sono sempre abituati a inseguire e a vedere di schiena allontanarsi.

Nella serie Hbo siamo dalle parti della perfezione che tanto mancava dai folgoranti sfavillii di House of Cards nella sua età dell’oro. È un invito a un ricevimento in maschera in cui ogni cosa è in movimento dal primo istante, già dalla soglia. Luci accese in sala, candele che sfumacchiano luce, volti coperti tra le piume, spettatori che esplorano e si lasciano ammaliare e divertire prima di entrare nelle sale private dove il nero è il velluto prediletto da indossare mentre qualcuno ti accarezza la schiena.

La serie vibra in ogni corda, è teatro senza esserlo, non ne ha la stucchevolezza in cui certi autori cadono quando tentano di adattare gli stilemi del palco ai registri dello schermo. Gli attori sono magistrai (Jeremy Strong su tutti), sontuosi a vestire dinamiche di corrente alternata in cui il fallimento è a due soffi dal successo appena agguantato. Succession è un piacere necessario, una testa di serie.

La storia

Il tycoon Logan Roy (Brian Cox), di sangue scozzese, partito affamato e senza un penny, e ora capotavola dell’infotainment americano, con gli occhi ferini e la barba sulfurea, tiene in mano i fili delle sue aziende come un brumista il suo cocchio. I cavalli con paraocchi di cuoio pregiato, sono i suoi figli, avidi di attenzioni e smaniosi di avanzare, non arresi alla resistenza dei lacci che li tengono insieme a trottare e non gli concedono una reale possibilità di primeggiare. In questa saga familiare circola buon sangue e manca una componente, logora e di facile reperibilità quando ci troviamo davanti a un dramma tra consanguinei: manca l’odio.

E come si può tessere una trama senza macchiarla di rosso? Chiedetelo al genio di Armstrong che ha scritto tre stagioni senza cedere di un passo alla banalità del male. Cosa c’è se manca l’odio se non l’amore, svestito dalle nuvole di zucchero e ridotto a una cappa dal colore inconsueto da allacciare stretta?

Le dinamiche dei ruoli si mescolano, la guerra è per conquistare l’animo di un inconquistabile, un padre che non può dare ma a cui si chiede di continuo. Logan Roy ha la vista lunga che la vecchiaia non riesce a sfocare, alla sua età non crede in un’altra vita e resta saldo agganciato al suo circolo vizioso di cui è centro, cuore, condanna e futuro prossimo.

Intanto che la serie monta ed esplode in una corsa in brughiera lumeggiata da fulmini di comicità, brio, nero, scende la vecchiaia a infocolare malesseri di un’azienda elefantiaca in perenne equilibrio tra i miliardi del suo valore, e lo strapiombo in cui sembra destinata a cadere in pochi istanti. Too big to fail, troppo grande per fallire, la Amc dei Roy scala la montagna dell’ambizione scansando con i movimenti sinuosi del serpente avversari e spunzoni troppo deboli a cui aggrapparsi, come un mostro a teste cangianti, un ominide dantesco, incurante della condanna eterna che lo aspetta di là dalla vetta, il padre-padrone che sognava di conquistare l'America continua a far guizzare i muscoli ai tavoli del consiglio di amministrazione. Perché se l’aldilà è dannazione certa, la vita che resta meglio prenderla a calci nella schiena.

Giornalista
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