Il capolavoro

“Toro scatenato”, l’essenza pura del cinema. Il dolore senza redenzione e la poesia della sconfitta

Il capolavoro di Scorsese in versione 4K dall’8 al 10 maggio torna al cinema. Ecco com’è nato un capolavoro che ancora oggi rappresenta un pilastro della Settima Arte

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di Alessia Principe
16 aprile 2023
21:30

Cos’è se non un’opera d’arte, l’inizio di “Toro scatenato” (Raging Bull). Somiglia a un sogno incastrato nell’infanzia, ammorbidito dal bianco e nero, liquido nei movimenti, così lenti e ineluttabili, velato dalla musica di Mascagni, soffice cotone da stringere tra le guance per non perdere i denti. La figura del pugile lontano, danza come una biscroma tra le righe del pentagramma, disegnato dalle corde del ring. È avvolta in una nebbia autunnale e nella propria solitudine che sembra così importante. Quella sagoma incappucciata, tira ganci a un nemico invisibile, come farebbe un ragazzino fingendo di rispondere al bullo quando non c’è.

Dal successo al buio

In quella bruma lattiginosa, galleggiava disperso anche Martin Scorsese, all’epoca giovane regista messo al tappeto troppo presto. Il suo “New York, New York”, aveva deluso le aspettative al botteghino e questo aveva avuto su di lui l’effetto di un gancio dritto alla mascella. Tanto era bastato a dimenticare quanto di buono fatto fin lì, i progetti futuri, la visione di un artista in ascesa, il talento. Niente, tutto cancellato. I produttori non ne volevano più sapere di lui, il vento tirava male e quando era così, meglio prendere le distanze dai giovani troppo arrembanti e succhiasoldi. Quelli non sono un buon affare.


D’improvviso per Martin fu come ritrovarsi di nuovo a Elizabeth Street, quando da piccolo fu costretto a traslocare a Little Italy dal Queens. La sua piccola statura non lo aiutava a integrarsi con i guappi del quartiere, così aveva imparato a stare per i fatti suoi. In quegli anni s’era rifugiato nella chiesa a pochi isolati da lui, pensando che forse la sua strada fosse quella della tranquillità del confessionale, della solennità del pulpito. Ma c’era un altro posto che lo faceva sentire a suo agio, e non era un altare, ma la sala di un cinema. Alla fine rinunciò ai propositi cattolici e scelse Hollywood. Nonostante gli sforzi, vecchi fantasmi adesso gli sussurravano all’orecchio che era arrivato il momento di smascherare l’impostore, e l’impostore era lui stesso.

Il ricovero in ospedale e la visita di De Niro

Dopo il flop del musical che aveva dedicato alla sua città, Scorsese era a terra con tutte le ruote. Aveva giurato che su un set non avrebbe più rimesso piede. Da lì cominciò ad abusare di droga e alcol, cercando sollievo, come poteva, al dolore che lo rosicchiava da dentro. La ribalta riguadagnata con “L’ultimo valzer” non fu sufficiente ad allontanare i demoni, e nel 1978 finì in ospedale. Depressione, stupefacenti, paranoia, paura. Un cocktail che non porta granché bene a nessuno. Un giorno, di buon mattino, la porta laccata di bianco del reparto si apre nell’ora delle visite. Robert De Niro, “Bob”, allarga un mezzo sorriso e gli chiede se oggi gli va di fare due passi. «Niente più cinema, basta. Ho chiuso» gli confessa Scorsese all’improvviso, come se si volesse togliere un peso. Fa troppo male pensare al fallimento, alla perdita, alla delusione. Meglio andarsene ora, lasciare la scena, pensare ad altro. «Non puoi, non lo vuoi davvero» insiste l’attore, amico, confidente, fratello dai tempi di “Mean Streets”. Allora De Niro tira fuori dalla tasca un libro. «Ho una cosa per te» dice e glielo allunga. È l’autobiografia di un pugile.

LaMotta, il pugile che incassava

Così quel giorno, Martin Scorsese che era mezzo morto, torna in vita e fa la conoscenza di Jake LaMotta, il pugile che incassava. Non fu un colpo di fulmine. Niente affatto. Al regista non andavano a genio le storie di sport, quindi sulle prime disse no, non se ne parla. Ma De Niro fu cocciuto, tremendamente convincente e alla fine anche lui, Martin, vide quello che gli serviva per dire di sì: vide la potenza dell'autodistruzione e delle ceneri che poteva creare tutt'intorno. Si innamorò della ostinazione di LaMotta nel rimanere sulle gambe, non cedere ai colpi, nella straziante malinconia di una sconfitta mascherata da vittoria. Il pugile rifiutava di perdere, cadere giù, piuttosto sarebbe rimasto a oscillare senza più una goccia di sangue in corpo ma con lo sguardo dritto a dire «Ehi Sugar, anche questa volta non mi hai buttato giù...». Eppure, non era un dono quella rabbia che lo reggeva in piedi, perché lo consumava, svuotandolo come un sacco.

 

«Me li ricordo ancora gli applausi, me li sento ancora nelle orecchie, e me li porterò dietro per tutta la vita. Mi ricordo una sera… levai l’accappatoio e cascò il mondo: m’ero scordato i calzoncini» 

Dal bianco e nero ai tiri al sacco

“Toro scatenato”, dall'8 al 10 maggio tornerà al cinema in versione 4K restaurata. Tutto, in questa pellicola, sa di eterno. Le pennellate in bianco e nero di Michael Chapman, scelte per non dare troppo risalto al sangue che sgorgava durante i combattimenti e per dare un’aura di ricordo lontano; il montaggio della fidatissima Thelma Schoonmaker; i colpi al sacco che De Niro dava come un matto prima del suo ciak, per entrare in scena stanco e sudato. E poi l’uso della camera in movimento come fosse un personaggio sul ring, gli effetti sonori che disegnano scene come tratti di carboncino su una tela, sono tutti elementi d’arte finissima come la musica classica che cavalca la tensione filmica.

I 25 chili di De Niro

Per entrare nella parte, De Niro si allenò con lo stesso Jake LaMotta per sei lunghissimi mesi, guadagnandosi i complimenti del pugile che lo definì un papabile campione nella categoria dei pesi medi. Questo dopo che De Niro gli spaccò un dente durante uno scambio di allenamento. “

Toro scatenato”, oltre che una prova autoriale magistrale, resterà nella memoria collettiva per l’interpretazione di Robert De Niro che rifiutò un trucco prostetico nelle scene in cui LaMotta ingrassa trenta chili, per non apparire troppo finto. Allora la produzione fu costretta a interrompere le riprese per concedere all’attore tre mesi per ingrassare davvero. Tra il Nord Italia e il Sud della Francia De Niro se la spassò a tavola fino a prendere su ben venticinque chili secchi. Non proprio noccioline. Questo mentre il mitologico Frank Warner, che curava il sonoro, ne studiava cento e più per perfezionare i rumori dei combattimenti. Leggenda racconta che furono schiacciate decine e decine di angurie, spremuti centinaia di pomodori, esplosi colpi di fucile per realizzare gli effetti. Ma nessuno lo saprà con certezza perché lo stesso Warner si precipitò a distruggere tutti i nastri alla fine della produzione del film.

Peccatori e redenti

De Niro salvò la vita di Scorsese, così ammise lo stesso regista anni dopo, convincendolo a fare quel film. E non fu solo questo, per settimane attore e regista si chiusero in casa per rimaneggiare lo script dopo l’addio di Schrader che aveva compiuto il miracolo di rendere degnamente per lo schermo, la storia di un libro scritto alla bell’e meglio. Fu merito suo la nascita della figura che fu del grandioso Joe Pesci, quella di Joey LaMotta, che incarna i fratelli del pugile.

“Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo”, è la citazione dai Vangeli di Giovanni, che appare nel film: un’ammissione, un desiderio, un’assoluzione forse per un personaggio che  forse la pace non la troverà mai, neanche con la morte.

 

 

Giornalista
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