“Trono di spade”, il grande inverno che non finisce mai

Dieci anni fa la prima messa in onda della serie che ha cambiato la tv. Resta un capolavoro irripetibile che seppe sovvertire i ruoli uccidendo i suoi eroi

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di Alessia Principe
7 aprile 2021
10:08

In una primavera d’inverno abbiamo lasciato Westeros al trotto insicuro, di malavoglia, verso un campo chiazzato di neve dura, con due fiori a germoglio nel nero delle rocce del Nord. Da lì si vedono ancora i pezzi del muro buttato giù dalle lingue blu di un freddo infernale. Sembra una gola che chiede aiuto più che un varco aperto oltre il confine. Di là dalla barriera, le colline più dolci di un Sud che penzola nel meridione immaginario di castelli e torri, così familiari da poterci andare a occhi chiusi.

Grande Inverno, terra dei lupi, della gente montagna che è sempre di parola e difende ciò che è suo battendosi il petto, la Terra delle Tombe, Nido dell’Aquila; oltre c’è Delta delle Acque, l’Altopiano e, a Ovest, Approdo del Re, fumante, che guarda a Roccia del Drago, già orfana. Giù spia Dorne e il suo mare sfortunato. E in cielo volano i tre figli alati a guardare dall’alto le rovine degli uomini e il clangore delle spade.


È finita e non eravamo preparati. In sottofondo, sulla cavalcata di Jon Snow, bastardo non più bastardo, negli ultimi secondi di scena, il coro fuoriuscito da un pentagramma familiare che ci aveva abituato alla marcia in crescendo senza parole, una regina d’alabastro col filo d’oro tra il rame dei capelli e l’eroe spezzato, mancato, che ciondola, l’erede triste senza gloria, in coda a un popolo in cammino senza nemici se non quelli nascituri che non vedremo mai.

Sbarazzarsi di storie come questo arazzo profumato di neve e sangue, non è come scrollarsi di dosso un pugno di mosche. E c’è una ragione se dieci anni dopo la prima puntata di “Trono di Spade”, la serie che ha rivoluzionato il mondo della televisione, il mito dei Sette regni non è stato soffiato via dal vento effimero della stagionalità mediatica, che afferra e lascia andare, nel continuo ricambio di contenuti e sperimentazioni.

Hbo, celebra il decennio di “Got”, ed è la scusa giusta per ricordare perché il dramma greco e scespiriano, ancorato a un potente racconto che ha avvinghiato nelle sue spire anche i non adepti della setta del fantasy e dintorni, ha smosso movimenti e sentimenti da Est a Ovest del mondo come lo conosciamo, quello collegato alla grande Rete da pesca in cui ci impigliamo ogni giorno.

C’è qualcosa che lo distingue dalla montagna delle produzioni che cintura la nostra vita, gli occhi, qualcosa che separa l’opera dalla moltitudine di serie ben fatte, ben girate, ben scritte e dimenticate senza tante storie. Merito di una ricetta unica, come quelle di famiglia che vengono tenute sotto chiave. C’è nella storia di Got un miscuglio di intreccio di umanità e disumanità, tragedia e sorpresa senza alcun riguardo per gli eroi. La crudele indipendenza degli scrittori della serie (basata sui libri, mai finiti di George R.R. Martin) dal cuore dello spettatore, il gusto, quasi perverso, di uccidere i beniamini, strapparli dal posto privilegiato (e atteso) per spingerli nei meandri della follia e del male più fondo, ha alimentato la dipendenza assoluta da un’opera riuscita anche dove sembrava carente, spezzata, incoerente, frettolosamente chiusa.

Alla vigilia del gran finale, con il cuore ancora bollente dell’episodio guerresco, la puntata 3, “La lunga notte”, un diamante nero perfetto pur nella sua difficile visione notturna, il mondo sembrava impazzito.

Il New York Times, giornalmente pubblicava aggiornamenti provenienti dai blogger di tutto il pianeta che, cogliendo i più piccoli e insignificanti dettagli, tessevano le trame di possibili sbocchi, chiamando all’investigazione tutti. C’eravamo trasformati in detective scrupolosi e ossessivi, avidi di condividere teorie e complotti per stupire con il nostro acume altri che, invece, confutavano ogni cosa punto per punto. Questo per dilatare il commiato il più possibile.

Anche gli opening credit, quasi oggetto di un’analisi autoptica, vennero scannerizzati, in fotogrammi, dai pasionari compulsivi certi che le tracce del finale insospettabile, fossero state celate ad arte tra gli ingranaggi rotanti dei Regni. Gli errori di scena (epic fail), come il bicchiere di Starbucks, comparso su un tavolaccio illuminato di candele, mentre si consumava la acuminata invidia della madre dei draghi, fu interpretato come un segno, così come le trecce scapigliate della Regina, segnali di qualche ultimo palpito.

E mentre ogni personaggio lasciava la scena, in modo irrimediabile, il cast in tempo reale salutava dai propri profili Instagram il pubblico che li aveva amati e linciati, in una sorta di lungo addio commovente quanto la storia che andava chiudendo le sue pieghe.

Alla fine di tutto, con i titoli di coda sullo schermo, le mani sul viso, il pianto caldo delle cose concluse per sempre che tanto ci sono piaciute, non restava che far sedimentare tutto. E solo così quell’ultimo capitolo, nell’estrema malinconia della chiusura irrevocabile, è diventato, pulito dall’amarezza, una meraviglia.

Le note composte dal musicista Ramin Djawadi, negli archi dolentissimi che accompagnano i destini consolidati nelle loro diramazioni di potere conquistato, di viaggio con l’orizzonte in petto, di dolore affondato nella pelliccia nera tinta di sangue passato, si sono innestate nella vibrazione sonante della scena ultima.

In dieci anni abbiamo visto le teste dei migliori rotolare nella neve, il fato incrociare la magia, la morte fare due passi indietro perché no, non quel giorno toccava, i buoni cedere, i cattivi cambiare forma alla vendetta, le regine spezzare catene e vite e poi crollare d’amore e ambizione, draghi amare madri imperfette come fossero le più tenere creature e perdonarle per non essere come dovevano e speravano.

La sovversione dei ruoli, lo spietato ribaltamento delle situazioni, la ricerca avida di vendetta mai di giustizia, è stato il legno secco perfetto che ha attizzato otto stagioni colme di attrazione e respingimenti. Amatissima e odiata, l’opera di David Benioff e D. B. Weiss, l’abbiamo partecipata come fossimo il grande pubblico nella platea di un teatro, in cui gli attori potevano sentire i fischi e gli applausi, e gli incitamenti ad aprire gli occhi e non fare questo o quello.

E così, a ogni replica si ripete l’effetto menzogna, il convincimento assurdo e irrazionale, che stavolta le cose andranno diversamente da come ce le ricordiamo. Invece, come nella vita, il destino è segnato, il tempo scorre verso avanti, le cose sono scritte anche nel gioco dei troni, dove Eros e Thanatos sono ancora abbracciati mentre il fumo, denso e scurissimo, si leva dalla seduta maledetta, tumulata dalla cenere bianca dei morti e dalla neve del gelido inverno.

Giornalista
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