Nel pieno delle commemorazioni per la strage di via D’Amelio, torna a far discutere un appunto del giudice riportato alla luce nel 2017, che cita esplicitamente il Cavaliere, associandolo a versamenti di denaro a noti mafiosi. Nessuna di quelle frasi finì nei verbali ufficiali. Ma oggi quel frammento di carta riapre domande mai chiuse
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Sono passati pochi giorni dal 19 luglio, anniversario della strage di via D’Amelio. Era il 1992 quando Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta vennero massacrati da un’autobomba sotto casa della madre. Meno di due mesi prima, un altro ordigno esplodeva lungo l’autostrada di Capaci, uccidendo Giovanni Falcone, sua moglie e tre uomini della scorta. Due omicidi eccellenti, due simboli abbattuti nel giro di 57 giorni. A distanza di oltre trent’anni, troppe domande restano ancora senza risposta.
E proprio in questi giorni, nel pieno delle commemorazioni, torna a galla uno dei misteri più silenziosi e scomodi della lotta tra Stato e mafia: quello degli appunti ritrovati nel 2017 e scritti di pugno da Falcone, in cui il magistrato annota riferimenti diretti a Silvio Berlusconi e ai suoi presunti rapporti con esponenti di Cosa nostra.
Il documento è un foglio a quadretti, parte di un block notes, vergato con la grafia precisa ed elegante di Falcone. Risale al 6 novembre 1989, giorno in cui il giudice ascoltava il pentito Francesco Marino Mannoia, uno dei primi collaboratori ad aprire varchi significativi nel mondo di Cosa nostra. Mentre Mannoia parlava, Falcone prendeva appunti per poi selezionare solo ciò che fosse riscontrabile e quindi verbalizzabile. Quello che scrisse in quel momento, però, non venne mai inserito nei verbali ufficiali.
L’appunto recita: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”. Sono nomi pesanti. Gaetano Cinà, mafioso vicino a Marcello Dell’Utri, è noto per aver annunciato nel 1987 l’arrivo a Milano di una cassata con il logo della Fininvest. Gaetano Grado è un altro uomo d’onore, presente negli ambienti mafiosi del Nord Italia. Vittorio Mangano, infine, è il celebre stalliere della villa di Arcore, assunto nel 1974 da Berlusconi, e riconosciuto come esponente della famiglia di Porta Nuova a Palermo.
Il foglio è rimasto per decenni sepolto tra le carte dell’ufficio di Falcone, divenuto oggi un museo. A riscoprirlo è stato Giovanni Paparcuri, ex tecnico informatico, sopravvissuto all’attentato del 1983 in via Pipitone Federico, e poi diventato uomo di fiducia del giudice. Dopo la pensione, ha trasformato il bunker del pool antimafia in un luogo della memoria, dove conserva archivi, faldoni e oggetti personali dei magistrati uccisi. Nel 2017, durante la consultazione di alcune vecchie carte relative alle dichiarazioni di Mannoia, Paparcuri si imbatte nell’appunto dimenticato. Lo segnala immediatamente alla procura. Ma il fatto non ebbe quasi alcuna eco mediatica, e dopo un breve accenno su la Repubblica, la notizia sparì nel nulla.
A spiegare il contesto di quel giorno è Maurizio Ortolan, ispettore del reparto Anticrimine di Palermo che, negli anni Ottanta, batteva a macchina gli interrogatori del giudice. «Falcone prendeva appunti a mano prima di dettare i verbali», ricorda. «Era molto rigoroso. Se un'informazione non era verificabile, preferiva non trascriverla. Ricordo che, quando si parlò di soldi da parte di Berlusconi, chiese espressamente se si potessero trovare dei riscontri. Mannoia rispose: “Non so che tipo di riscontri si possano ritrovare”. Allora Falcone disse: “Allora questo magari non lo mettiamo. Se lo scriviamo così rischiamo di vanificare tutto l’impianto dell’indagine. Eventualmente lo approfondiremo in un secondo momento”».
Quel momento, però, non arrivò mai. Tre anni dopo, Falcone morì a Capaci. E con lui, forse, anche il tentativo di far luce su una rete di rapporti tra potere economico, politico e criminalità organizzata. Nessuna delle informazioni contenute in quel foglio venne mai sviluppata. Eppure, molte di esse, col tempo, trovarono conferma nei tribunali.
Nel processo a Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa, la Cassazione ha stabilito che Silvio Berlusconi stipulò un patto con Cosa nostra nel 1974, volto prima a evitare sequestri, poi a “mettere a posto” i ripetitori televisivi in Sicilia. Le dichiarazioni di vari pentiti, le intercettazioni e gli accertamenti patrimoniali raccolti nei decenni successivi hanno costruito un impianto che oggi rende l’appunto di Falcone non solo suggestivo, ma potenzialmente rilevante.
Eppure, nei verbali ufficiali dell’interrogatorio di Mannoia, Berlusconi non viene mai menzionato. Interpellato nel 2017 da la Repubblica, il collaboratore ha risposto: “Non ricordo. Sono anziano e malato. E poi non posso rilasciare dichiarazioni alla stampa”. In aula, al processo Dell’Utri, si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Tra i nomi scritti da Falcone compare anche Vito Guarrasi, potente avvocato palermitano legato a numerosi affari economici riservati. Già negli anni Settanta era stato attenzionato dalla commissione parlamentare antimafia. È morto nel 1999, all’età di 85 anni. Di lui scriveva Giuseppe D’Avanzo: “La mafia può fare a meno dei Corleonesi, ma non della spregiudicata e cinica sapienza dei Guarrasi”.
La domanda che emerge è semplice quanto inquietante: perché nessuno indagò seriamente su quegli appunti? Nessuna inchiesta ufficiale su Berlusconi o Dell’Utri risultava aperta a Palermo prima del 1994. Ma in un’intervista rilasciata il 21 maggio 1992, solo due giorni prima di morire, Paolo Borsellino parlò chiaro: «So che esistono indagini su Dell’Utri e Mangano. Credo che ci sia un’istruttoria in corso, ma non conosco i dettagli». Quelle indagini, ufficialmente, non esistono nei registri.
Sette anni dopo il ritrovamento, e oltre trent’anni dopo l’uccisione dei due giudici, quel foglio resta lì, scritto con grafia minuta e lineare. Un appunto, una traccia, forse una conferma. E insieme una domanda sospesa. In fondo, lo sapeva anche Falcone: senza riscontri, non c’è giustizia. Ma senza memoria, non può esserci verità.