Ha sei anni, è malato di leucemia e ha avuto la sfortuna di credere che l’America potesse proteggerlo. Non è andata così. Lui e sua madre – rifugiati dall’Honduras – sono stati arrestati all’uscita da un’aula di tribunale a Los Angeles, come fossero criminali pericolosi. La loro colpa? Aver chiesto asilo. Il risultato? Un bimbo in lacrime, ammalato, rinchiuso in un centro di detenzione texano, con i vestiti bagnati di paura e un appuntamento medico perso, forse cruciale.

È una delle tante storie al limite della crudeltà che rimbalzano in queste ore dai centri di detenzione statunitensi. Ma questa ha colpito nel profondo. Non solo per la giovane età del protagonista, né per la diagnosi già pesante che grava su di lui. Ma per le modalità. Per l’assenza assoluta di umanità in ogni gesto. Per il gesto – rivelato dalla denuncia – di uno degli agenti dell’Ice, che avrebbe mostrato la pistola al bambino per “calmarlo” mentre piangeva. Risultato: il piccolo si è fatto la pipì addosso. E da allora è rimasto con i pantaloni bagnati addosso.

La madre, assieme ai figli di sei e nove anni, era uscita da un’udienza davanti al giudice per la convalida dello status di rifugiata. Nessuna sentenza definitiva. Il magistrato aveva previsto un secondo appuntamento. Ma ad attenderla, subito fuori, c’erano gli agenti federali dell’Immigration and Customs Enforcement. La famiglia è stata caricata in auto e portata in Texas, in un centro dove le visite mediche – anche per un caso come questo – non sono la priorità.

La vicenda ha suscitato l’immediata reazione di alcuni giuristi e attivisti per i diritti civili. Elora Mukherjee, docente di diritto alla Columbia University e avvocata della famiglia, ha dichiarato: «Un tribunale federale ha già stabilito che la politica dell’Ice di arrestare le persone nei tribunali è illegale e incostituzionale. Farlo con dei bambini, e con un bambino malato, è ripugnante».

A rincarare la dose è Kate Gibson Kumar, del Texas Civil Rights Project: «Gli orrori che questa famiglia ha subito non dovrebbero mai accadere a un bambino. È un atto di disprezzo per l’umanità. Mostrare una pistola a un bimbo malato è disumano. Punto».

La base trumpiana, naturalmente, non la vede così. In piena campagna elettorale, mentre il tycoon rilancia la sua linea dura sull’immigrazione, i suoi sostenitori applaudono la rigidità degli agenti. Sui social si moltiplicano i commenti che difendono l’operazione: «Chi entra illegalmente deve essere espulso, punto e basta». Nessun distinguo. Nessuna empatia. Nemmeno davanti a un bambino gravemente malato.

Eppure, questo non è un episodio isolato. Negli ultimi giorni i media americani sono stati inondati da notizie simili. A Los Angeles è stata arrestata una cittadina americana solo perché aveva tratti ispanici. In un altro caso, bambini sono stati fotografati in manette nei corridoi di un tribunale. E c’è chi, pur avendo combattuto per l’America, ha scelto di auto-deportarsi: è il caso di un veterano decorato della guerra in Corea, rispedito nel Paese natale per un vecchio reato di droga.

Nella retorica della campagna elettorale, tutto fa brodo. Anche il dolore di un bambino. Anche la paura stampata sul volto di un malato di leucemia che non riesce a capire perché gli stiano facendo questo. L’Ice, nel frattempo, tace. Nessuna dichiarazione. Nessuna spiegazione. Nessuna scusa.

La madre e i figli, oggi, sono ancora detenuti. L’avvocata ha chiesto il rilascio immediato e l’accesso urgente a cure mediche adeguate. Ma la risposta tarda ad arrivare. Dalla Casa Bianca, silenzio. E sui giornali conservatori si esulta per «l’efficienza ritrovata» delle deportazioni.

La sensazione è che, di qui a novembre, storie come questa aumenteranno. E che lo scontro tra chi vede nei migranti una minaccia e chi continua a riconoscere loro dignità e diritti, sia appena ricominciato.

Nel frattempo, in una cella del Texas, un bambino di sei anni aspetta ancora di capire perché nessuno si sia fermato a dirgli che no, non era colpa sua.