Dopo la decisione della Corte costituzionale che ha cancellato il limite ai compensi pubblici, l’ex ministro non ha perso tempo: Villa Lubin alza la soglia e raddoppia le spese per i vertici
Tutti gli articoli di Italia Mondo
PHOTO
L’effetto domino della sentenza della Consulta sul tetto degli stipendi pubblici non si è fatto attendere. Al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il Cnel guidato da Renato Brunetta, il limite massimo delle retribuzioni è già stato portato a 311 mila euro lordi, la cifra corrispondente al trattamento economico del primo presidente della Corte di Cassazione. Una decisione immediata e retroattiva, che riscrive i conti dell’ente e alimenta le polemiche sulla gestione dei fondi pubblici da parte degli organismi di vertice.
Il provvedimento è stato approvato dall’ufficio di presidenza dello stesso Cnel, riunito a Villa Lubin, con un voto che di fatto riguarda gli stessi membri che ne beneficeranno. La nuova soglia decorre dal primo agosto 2025, con effetto retroattivo, e comporterà un aumento rilevante delle spese per stipendi e indennità. Per il 2026, infatti, il bilancio prevede 1,5 milioni di euro destinati alle retribuzioni dei vertici e un incremento di 100 mila euro per consiglieri e staff, che portano il plafond complessivo a 420 mila euro.
Una scelta che stride con il ruolo di moral suasion che Brunetta, da ex ministro della Pubblica amministrazione, aveva più volte rivendicato durante i suoi anni di governo. L’ex esponente berlusconiano, oggi molto vicino a Palazzo Chigi, è stato tra i più critici sull’introduzione del salario minimo di 9 euro all’ora proposto dalle opposizioni. Ma il Cnel da lui presieduto, chiamato a esprimere pareri su politiche economiche e sociali, ha nel frattempo deciso di adeguare gli stipendi del suo vertice al massimo consentito dalla legge, senza attendere linee guida ministeriali.
La decisione è arrivata dopo la sentenza della Corte costituzionale di luglio, che ha rimosso il tetto di 240 mila euro fissato nel 2014 e poi innalzato a 256 mila nel 2025. L’11 settembre, un mese e mezzo dopo la pronuncia, l’ufficio di presidenza ha deliberato nuovi stanziamenti “per adempiere alla sentenza”, coprendo anche gli aumenti pregressi di cui i vertici del Cnel non avevano beneficiato. Lo scorso 29 ottobre il segretario generale Massimiliano Monnanni ha firmato la variazione di bilancio che stabilisce il nuovo limite, con la motivazione che “il Cnel deve procedere al doveroso adeguamento delle indennità del presidente, dei vicepresidenti e dei consiglieri”.
Nel documento approvato si legge che la misura ha “decorrenza 1° agosto 2025” e riguarda non solo gli emolumenti futuri, ma anche il recupero dei precedenti aumenti stabiliti da due distinti Dpcm tra luglio 2024 e luglio 2025. La relazione illustrativa parla esplicitamente di “necessità di compensare le somme non erogate a causa del precedente limite”. In altre parole, una sanatoria retroattiva che consente a presidente e consiglieri di incassare anche le differenze maturate nei mesi precedenti.
La vicenda si inserisce in un quadro di generale incertezza dopo la caduta del tetto retributivo. Il ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, e il titolare dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, avevano chiesto alle amministrazioni di non agire in ordine sparso, annunciando un decreto per definire criteri uniformi. Ma a Villa Lubin hanno preferito non attendere. “Dovevamo adeguarci alla sentenza”, è la motivazione ufficiale.
La fretta del Cnel è stata letta da molti come un segnale politico. Non solo perché Brunetta è oggi considerato vicino al governo Meloni, ma anche perché l’ente, spesso criticato per i costi e la scarsa utilità, ha scelto di intervenire sulla voce più sensibile del proprio bilancio proprio mentre il Paese discute di contenimento della spesa pubblica. Eppure nel decreto Pnrr del 2024 era stata varata una norma ad hoc per consentire a un pensionato – come l’ex ministro – di cumulare pensione e stipendio in deroga ai limiti precedenti.
Le cifre parlano da sole. Nel bilancio di previsione del 2025, le “competenze fisse e continuative del presidente, dei vicepresidenti e dei consiglieri” ammontavano a 850 mila euro. A fine anno la cifra è salita a 1,4 milioni, e per il 2026 arriverà a un milione e mezzo. Nel frattempo la dotazione per il personale di staff è aumentata di 90 mila euro, toccando quota 390 mila. Complessivamente, il costo dell’area governance supererà i 3 milioni di euro.
Una corsa al rialzo che contrasta con le dichiarazioni di principio sulla spending review. Il bilancio previsionale del Cnel per il 2026, infatti, sottolinea la volontà di ridurre le spese per manutenzione, borse di studio e progetti di ricerca, con un budget complessivo in calo da 14,9 a 13,8 milioni di euro. Ma la riduzione non tocca i vertici.
La scelta di Brunetta di adeguare subito i compensi, mentre altri enti restano in attesa delle indicazioni del governo, rischia di aprire un fronte politico. In Parlamento cresce il malumore tra le opposizioni, che accusano il Cnel di “dare un pessimo esempio in tempi di sacrifici”. Al ministero dell’Economia si valuta se intervenire con un decreto correttivo che armonizzi i criteri di calcolo delle indennità.
Resta il dato politico. Il Cnel, organo costituzionale spesso evocato per la sua scarsa incisività, torna così al centro del dibattito per le retribuzioni dei suoi vertici. E Renato Brunetta, da sempre paladino dell’efficienza pubblica, si ritrova al centro di un caso che riporta in primo piano la distanza tra la teoria dei tagli e la pratica dei compensi. Nel Paese dove il salario minimo è ancora un’ipotesi di legge, l’unico tetto che sembra caduto per sempre è quello degli stipendi di chi governa gli altri.

