L’11 giugno 1963, il presidente John Fitzgerald Kennedy prese la parola e in un discorso televisivo scosse la coscienza dell’America. Era una sera d’inizio estate e l’aria era tesa. A Birmingham, in Alabama, i bambini neri erano stati attaccati con gli idranti e i cani poliziotto. Solo poche ore prima, il governatore segregazionista George Wallace aveva cercato di bloccare fisicamente l’ingresso di due studenti afroamericani all’Università dell’Alabama. Il mondo osservava, e l’America era sull’orlo di un’esplosione.

Kennedy parlò con chiarezza: «Questa nazione è stata fondata sul principio che tutti gli uomini sono creati uguali», disse. E per la prima volta un presidente degli Stati Uniti assunse un ruolo diretto e visibile nella battaglia per i diritti civili. Chiese una nuova legislazione federale per garantire l’uguaglianza nell’accesso ai luoghi pubblici, al voto, alla scuola, al lavoro. Fu un punto di svolta.

Il Civil Rights Act del 1964, firmato da Lyndon B. Johnson dopo l’assassinio di Kennedy, aprì una nuova fase. La segregazione fu resa illegale, e un anno dopo il Voting Rights Act del 1965 garantì finalmente ai cittadini afroamericani il diritto di voto senza ostacoli. Ma l’uguaglianza formale non bastava. La povertà, il razzismo sistemico, la brutalità della polizia e la ghettizzazione urbana continuarono a segnare la vita di milioni di afroamericani. Gli anni Settanta e Ottanta videro nuove forme di emarginazione: l’epidemia di crack, l’esplosione del sistema carcerario, le politiche repressive sotto Reagan. Eppure, la marcia continuava. Ogni generazione trovava la sua voce: Malcolm X, Martin Luther King, Angela Davis, e poi Barack Obama.

Obama e l’illusione dell’America post-razziale

Nel 2008, l’elezione di Barack Obama fu salutata da molti come l’alba di un’America finalmente “post-razziale”. Per la prima volta, un uomo nero sedeva nello Studio Ovale. Era la vittoria simbolica di una lunga battaglia, ma anche l’inizio di nuove contraddizioni. Obama non cancellò il razzismo, ma ne mostrò le tensioni latenti. Durante i suoi due mandati, i casi di violenza della polizia contro afroamericani disarmati divennero noti a tutto il mondo: Ferguson, Baltimore, Trayvon Martin, George Floyd. Il movimento Black Lives Matter nacque proprio da questa realtà: l’uguaglianza formale non coincideva con la giustizia reale. Molti bianchi americani, soprattutto nelle zone rurali e nei sobborghi impoveriti, si sentirono alienati da un’America che cambiava troppo in fretta. Si preparava il terreno per un contraccolpo.

Trump: il risveglio brutale dell’America profonda

L’elezione di Donald Trump nel 2016 fu uno shock per il mondo intero, ma per molti americani rappresentò una rivalsa. “Make America Great Again” non era solo uno slogan economico: era una dichiarazione di identità, una promessa di restaurazione. Di fronte a un Paese che diventava sempre più multietnico, progressista e globalizzato, Trump parlò alle paure, alle insicurezze, al bisogno di appartenenza. La sua presidenza (2017-2021) fu segnata da attacchi alle minoranze, tentativi di revoca delle protezioni per immigrati e rifugiati, e una gestione divisiva delle proteste per i diritti civili. La sua sconfitta nel 2020 sembrò riportare una calma temporanea, ma le tensioni covavano sotto la cenere.

Nel 2024, Trump è tornato alla Casa Bianca. Oggi, nel 2025, l’America appare di nuovo spaccata. L’ex presidente è diventato presidente in carica, ancora più aggressivo, deciso a “ripulire” il Paese da immigrati “illegali” e a colpire quello che definisce “il cancro del liberalismo elitario”. Le città santuario sono nel mirino. Le forze federali compiono retate spettacolari nei quartieri ispanici. Si parla di deportazioni di massa. I social network rilanciano una propaganda tossica. Il confine con il Messico è diventato una zona militarizzata. E la promessa americana di eguaglianza, costruita faticosamente in decenni, sembra traballare. Non è solo questione di immigrazione. È il sogno stesso di un’America inclusiva a essere sotto attacco. Trump ha saputo mobilitare un malcontento profondo, ma ha anche sdoganato linguaggi e politiche che minacciano le basi della democrazia costituzionale. Chi pensava che l’elezione di Obama avesse risolto i nodi razziali si è illuso. Il razzismo in America non è mai stato solo odio esplicito: è stato anche disuguaglianza economica, segregazione scolastica, mancanza di opportunità. È un sistema. Ed è un sistema che oggi rischia di irrigidirsi.

Il futuro è ancora aperto

La storia americana è una lunga battaglia tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. John F. Kennedy parlò alla coscienza del Paese, non con rabbia ma con la forza morale della legge e della giustizia. Oggi servirebbe una voce simile. Una nuova leadership capace di unire, non dividere. Di curare, non ferire. Il sogno di Martin Luther King – un Paese dove ogni persona sia giudicata non per il colore della pelle ma per il contenuto del suo carattere – è ancora lontano. Ma è un sogno che milioni di americani continuano a portare avanti, con fatica, giorno per giorno. L’America, ancora una volta, è davanti a un bivio.