Dopo tre anni di indagini e perquisizioni, la Procura di Roma conclude il procedimento sulla sottrazione di informazioni coperte da segreto. Coinvolti finanzieri, magistrati e giornalisti. Al centro, 33mila file e oltre quattromila segnalazioni bancarie
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La Procura di Roma ha chiuso l’inchiesta sulla diffusione di informazioni riservate e sugli accessi abusivi ai sistemi informatici delle forze dell’ordine e della Direzione nazionale antimafia. Un’indagine complessa e ramificata che, secondo i magistrati, ha fatto emergere un sistema di consultazioni non autorizzate di dati sensibili all’interno delle banche dati più protette dello Stato.
A rischio processo il finanziere Pasquale Striano e l’ex sostituto procuratore della Dna Antonio Laudati, già al centro dell’inchiesta nata a Perugia e poi trasferita nella Capitale per competenza territoriale. Gli indagati sono in tutto ventitré, tra cui alcuni giornalisti accusati di aver ricevuto o utilizzato parte delle informazioni riservate.
Il fascicolo, coordinato dal procuratore aggiunto Giuseppe De Falco, segna il punto finale di un’inchiesta durata oltre tre anni. Gli atti raccontano una vicenda che gli stessi magistrati definiscono «mostruosa» per mole di materiale e «inquietante» per le sue implicazioni istituzionali. In gioco non c’è solo la violazione del segreto d’ufficio, ma la fiducia stessa nei meccanismi di protezione delle banche dati giudiziarie.
Secondo la ricostruzione della Procura, tra il 2019 e il 2022 Striano, maresciallo della Guardia di Finanza in servizio alla Direzione antimafia, avrebbe effettuato migliaia di accessi non autorizzati ai sistemi informatici della Dna, della Guardia di Finanza e dello Sdi, il database interforze che raccoglie le informazioni delle forze dell’ordine. Dalle indagini emergono oltre quattromila segnalazioni di operazioni sospette e più di mille nominativi inseriti nella banca dati Serpico, utilizzata per tracciare flussi finanziari e movimenti economici.
Ma i numeri più impressionanti sono quelli relativi ai documenti scaricati: trentatremila cinquecentoventotto file, tra relazioni, report e informative interne. Un volume di dati tale da costringere gli investigatori a istituire un archivio parallelo solo per gestire il materiale sequestrato. «Un caso senza precedenti per estensione e per sensibilità delle informazioni sottratte», si legge negli atti.
L’ex magistrato Antonio Laudati, secondo l’accusa, avrebbe avuto un ruolo di raccordo e supervisione, pur non essendo direttamente coinvolto negli accessi. Le verifiche avrebbero accertato contatti frequenti con Striano e la possibilità che alcune delle informazioni estratte siano poi confluite in dossier di natura giornalistica o politica.
A Perugia, dove l’inchiesta era nata, il procuratore Raffaele Cantone aveva parlato di «una ricerca spasmodica di informazioni su soggetti mediaticamente esposti», sottolineando il rischio di un uso improprio dei dati giudiziari. Nella lista delle persone attenzionate comparirebbero politici, imprenditori, sportivi e personaggi del mondo dello spettacolo.
«Occorre tutelare un’istituzione sacra come la Direzione nazionale antimafia, tra i lasciti più importanti di Giovanni Falcone», aveva detto Cantone davanti al Copasir, insieme al procuratore nazionale Giovanni Melillo, quando l’indagine era ancora nella fase istruttoria. Un richiamo alla necessità di salvaguardare la credibilità del sistema investigativo centrale, quello stesso organismo che coordina le procure distrettuali nella lotta contro la criminalità organizzata.
L’aspetto più delicato dell’inchiesta resta la destinazione finale delle informazioni sottratte. Dove sono finiti i file scaricati dai terminali della Dna? Chi ne ha fatto uso? E quante di quelle notizie sono finite, anche inconsapevolmente, in mani esterne alle istituzioni? Le indagini non avrebbero ancora chiarito il percorso completo dei dati, ma diversi elementi suggeriscono che parte del materiale sia circolato ben oltre i confini interni della magistratura.
Tra i dossier emersi, uno riguarda anche i fondi della Lega. Striano, scrivono gli inquirenti, avrebbe effettuato ricerche specifiche su conti correnti e società collegate al partito, poi confluite nelle procure di Milano, Genova e Bergamo, dove erano già in corso indagini autonome. «Striano aveva predisposto una sorta di diario di tutte le pratiche svolte – spiegava Cantone – e tra queste figurava anche l’attività sui fondi della Lega». Un aspetto che la Procura di Roma valuterà in vista dell’eventuale richiesta di rinvio a giudizio.
Il procedimento era stato trasferito nella Capitale dopo un’eccezione sollevata dai legali di Laudati, accolta prima dal gip e poi dal Tribunale del Riesame umbro. La Corte di Cassazione aveva infine confermato la decisione, stabilendo che la competenza territoriale spettava alla procura di Roma.
Ora, con la chiusura delle indagini, gli avvocati degli indagati avranno venti giorni di tempo per presentare memorie difensive o chiedere ulteriori accertamenti. Poi la procura deciderà se chiedere il rinvio a giudizio.
In attesa di quella scelta, resta l’immagine di un caso che ha scosso il cuore dello Stato, toccando i nervi più sensibili del sistema giudiziario. Perché quando le informazioni coperte da segreto finiscono fuori controllo, il rischio non è solo penale, ma istituzionale. E la domanda che aleggia a Palazzo di Giustizia è la più semplice e la più inquietante: se non è al sicuro la banca dati dell’Antimafia, cosa resta davvero protetto?

