Non è stato solo un attacco. Non è stato solo un bombardamento. È stata una decapitazione sistematica. Una notte come spartiacque. L’operazione “Rising Lion”, lanciata da Israele nelle prime ore del 13 giugno, ha trasformato la mappa del potere iraniano in un cumulo di cenere e crateri. Le bombe non hanno solo centrato obiettivi: hanno cancellato nomi, spezzato catene di comando, incenerito la vecchia guardia della Repubblica islamica.

A cadere è stato Hossein Salami, comandante supremo dei pasdaran. L’uomo delle minacce, il volto marziale della teocrazia, quello che prometteva di “aprire le porte dell’inferno” a Israele. Quelle porte sono state aperte. Ma dall’altra parte. E prima di quanto lui immaginasse.

Con lui, Mohammad Hossein Bagheri, architetto della macchina bellica di Teheran, già sotto sanzioni internazionali. E ancora: Ali Shamkhani, consigliere personale della Guida suprema, e Mohammad Ali Jafari, ex comandante dei Guardiani della rivoluzione e mente delle operazioni iraniane in Siria.

Ma la lista non finisce nei ranghi militari. Due nomi tra tutti: Mohammad Mehdi Tehranchi e Fereydoon Abbasi, rispettivamente fisico teorico e già capo dell’Organizzazione per l’energia atomica. Due pilastri del programma nucleare iraniano. Ora ridotti in polvere. L’equivalente di una bomba al plutonio lanciata sull’élite accademica e strategica del Paese.

Gli obiettivi colpiti parlano da soli: il sito sotterraneo di Natanz, roccaforte dell’arricchimento dell’uranio; Pars Garna, società coinvolta nella costruzione di bunker militari come quello di Parchin; il cuore industriale dell’Organizzazione aerospaziale; e perfino quartieri residenziali di Teheran, dove vivevano alcune delle figure eliminate. Le vittime collaterali? Anche bambini. Per Tel Aviv, danni inevitabili. Per Teheran, nuovi martiri. Per il mondo, un altro chiodo sulla bara della stabilità in Medio Oriente.

Restano intatti, per ora, Fordow e Isfahan, altri due snodi del programma atomico iraniano. “Non sono stati colpiti”, ha confermato Rafael Grossi, capo dell’Aiea. Ma è un “per ora” che pesa come una minaccia. Israele non ha agito solo per punire, ma per prevenire. Per dire: possiamo farlo ancora, quando vogliamo, dove vogliamo.

Il messaggio è chiaro: nessuno è al sicuro. Nessun bunker è profondo abbastanza. Nessun nome troppo grosso da essere fatto saltare. È il ritorno alla dottrina dell’intoccabilità rovesciata. Quella in cui non esiste posizione, grado o merito che ti salvi, se sei considerato un pericolo.

Per Netanyahu, questa è una guerra personale. Contro Teheran, ma anche contro chi lo frena. Ha sfidato l’amministrazione Biden, ignorato gli appelli alla moderazione, bypassato perfino le timidezze di Trump, che pure in queste ore prova a smarcarsi. È la sua guerra. E la sta conducendo a modo suo: senza compromessi, senza alleati, senza rete.

Ora la palla passa a Teheran. Ma con la testa mozzata dell’apparato, l’Iran dovrà prima capire chi comanda, prima ancora di decidere come reagire. L’escalation è ormai inevitabile. Ma lo scenario è più pericoloso che mai. Israele ha alzato l’asticella. E il mondo trattiene il respiro.