In Veneto il centrodestra ha già scelto la strada: il candidato sarà Alberto Stefani, deputato della Lega e volto giovane su cui Matteo Salvini ha deciso di puntare per blindare la sua roccaforte. La notizia circola da giorni nei corridoi della maggioranza, anche se l’ufficialità viene rimandata fino all’ultimo. Una tattica di prudenza per evitare frizioni interne, visto che numeri alla mano la Lega si prepara a perdere due terzi dei suoi seggi rispetto all’ultima tornata.

A rinunciare a mosse alternative è Luca Zaia. Il governatore uscente non presenterà una lista autonoma, scelta che evita al Carroccio un’ulteriore divisione e consegna al partito un candidato fresco, senza il peso delle troppe stagioni di governo alle spalle. In cambio, Fratelli d’Italia mira al vero premio: il pieno di seggi in consiglio regionale, rafforzando la propria egemonia sul territorio senza mettere a rischio i rapporti interni alla coalizione.

L’accordo sul Veneto è il frutto di una regia complessa. Salvini aveva bisogno di un risultato certo per tenere compatto il partito, stretto tra il vecchio gruppo dirigente e la spinta di Roberto Vannacci. Meloni, dal canto suo, ha interesse a mantenere il leader leghista al tavolo, anche se ridimensionato, per poter gestire meglio l’equilibrio complessivo della coalizione. Il compromesso, dunque, conviene a entrambi: Salvini difende la bandiera veneta, Meloni prepara l’assalto ai seggi.

La partita, però, non si chiude con Venezia. Tutto il centrodestra guarda con attenzione alle Marche, dove la rielezione di Francesco Acquaroli rappresenta il banco di prova più delicato. Un successo del presidente meloniano uscente permetterebbe a Giorgia Meloni di rivendicare la forza del suo partito non solo nei sondaggi nazionali ma anche nei territori. Al contrario, una sconfitta aprirebbe la strada agli appetiti degli alleati, che non hanno mai smesso di guardare alle candidature come a una partita da spartire pezzo dopo pezzo.

Il nodo è politico e simbolico insieme: FdI non vuole dare l’immagine di un partito privo di classe dirigente radicata. Per questo Meloni chiede al suo gruppo di lavorare “pancia a terra”, senza distrazioni e senza affidarsi troppo alle proiezioni favorevoli. Dopo la débâcle sarda con Paolo Truzzu, diventata un caso nazionale e un assist agli alleati, la premier sa che non può permettersi altri passi falsi.

Intanto nel Sud la situazione resta fluida. In Puglia e in Campania il centrosinistra ha già lanciato i propri candidati, mentre il centrodestra fatica a trovare un nome condiviso. In Campania, il forzista Martusciello minaccia di bruciare i tempi e annunciare un candidato già la prossima settimana. Ma, realisticamente, nessuno a Roma crede a una vittoria facile in quelle regioni: la sfida vera è altrove.

Il Veneto, con l’investitura di Stefani, rappresenta il campo in cui Salvini può ancora far valere la bandiera leghista. Le Marche, invece, sono la terra su cui Meloni gioca la sua leadership. Se Acquaroli vincerà, la premier potrà dire a Salvini e a Tajani che Fratelli d’Italia ha uomini capaci di governare, e che la guida della coalizione resta saldamente nelle sue mani. Se invece il risultato dovesse tradire le attese, l’immagine di FdI rischierebbe di indebolirsi, lasciando aperto lo spazio agli alleati per pretendere altre candidature.

La sfida interna, dunque, non è meno tesa di quella contro il centrosinistra. E i ritardi nell’ufficializzazione degli accordi non sono casuali: servono a mantenere margini di manovra, a sedare malumori interni e a evitare fratture premature. Ma il messaggio che arriva da Roma è chiaro: in Veneto la partita è chiusa, in consiglio regionale si prepara un equilibrio diverso, e nelle Marche Meloni deve dimostrare che il suo partito non è solo quello dei sondaggi ma anche quello delle vittorie reali.