Lo storico centro sociale milanese è stato sfrattato dopo vent’anni di rinvii. Il leader leghista applaude: «La legge è uguale per tutti». Ma nel 1994, in Consiglio comunale, lo difese a spada tratta, raccontando di frequentarlo e di condividerne idee e bisogni
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La storia del Leoncavallo e quella di Matteo Salvini si intrecciano da oltre trent’anni. È scattata all’alba di ieri l’esecuzione dello sfratto dello storico centro sociale di via Watteau, quartiere Greco, Milano. Polizia e carabinieri sono entrati poco prima delle nove con l’ufficiale giudiziario: nessuna resistenza, locali deserti. Un’operazione attesa dal 2003, chiesta dai proprietari dell’immobile e rinviata più di 130 volte.
Stavolta no. Le porte del Leonka, simbolo di mezzo secolo di controcultura, si sono chiuse. Il primo a esultare è stato proprio lui, l’ex ragazzo che lì dentro aveva trascorso parte della sua giovinezza: Matteo Salvini. “Decenni di illegalità tollerata, e più volte sostenuta dalla sinistra: ora finalmente si cambia. La legge è uguale per tutti: afuera!”, ha scritto sui social, citando lo slogan caro al presidente argentino Javier Milei. Per il leader della Lega, vicepremier e ministro delle Infrastrutture, lo sgombero
rappresenta “il ripristino della legalità dopo anni di occupazione abusiva”.
Eppure, basta voltarsi indietro per scoprire un Salvini diverso. Anno 1994: lui ha 21 anni, è appena entrato a Palazzo Marino da consigliere comunale, e il suo primo intervento in aula riguarda proprio il Leoncavallo. La città discute animatamente degli incidenti legati agli scontri di quel periodo, e Salvini prende la parola: “Dai 16 ai 19 anni il mio ritrovo era il Leoncavallo. Mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni. Nei centri sociali ci si trova per discutere, confrontarsi, bere una birra e divertirsi. Quelli che io conosco non prenderebbero mai in mano un sasso o una spranga”.
Parole che spiazzarono tutti. La sinistra applaudì, il capogruppo del Pds Stefano Draghi definì il suo discorso “lucido ed equilibrato”. Persino molti leghisti rimasero sorpresi da quel ragazzo che, con voce decisa, rivendicava la sua frequentazione con il centro sociale più ingombrante della città. Oggi lo stesso Salvini si presenta come il principale nemico di quell’esperienza. Non solo condanna l’occupazione, ma ne fa un terreno di battaglia identitaria, simbolo della “sinistra che difende l’illegalità”.
Il ribaltamento è evidente: dall’elogio della birra e del confronto al “fuori tutti” scandito con orgoglio. Il contesto politico spiega molto. Negli anni ’90 il giovane Salvini apparteneva alla corrente più movimentista della Lega Nord, quella che flirtava con posizioni antagoniste, anti-sistema e perfino filo- centrosociali. Oggi è il capo di un partito che ha fatto della legge e dell’ordine la sua bandiera, corteggiando l’elettorato conservatore e sovranista. In questo passaggio si colloca il cambio di pelle: la memoria di un passato ribelle sacrificata alle convenienze della politica presente.
Non mancano le polemiche. Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde, ha parlato di “ipocrisia e doppiopesismo”: “Il Leoncavallo è stato uno spazio culturale e sociale attivo da oltre trent’anni, che ha visto tra i suoi fruitori anche il ministro Salvini. Oggi lo stesso lo definisce illegalità, mentre
l’occupazione dei fascisti di Casapound in via Napoleone III a Roma resta intoccata”. Un’accusa diretta al governo e al ministro dell’Interno Piantedosi, che ha rivendicato lo sgombero come “segno della tolleranza zero verso le occupazioni abusive”.
E il sindaco Beppe Sala non nasconde l’irritazione per essere stato lasciato all’oscuro: “Il Comune non è stato avvisato in anticipo, nonostante il giorno prima avessimo partecipato al comitato per l’ordine e la sicurezza. Ho saputo dello sgombero con una telefonata del prefetto. Resta il valore storico e sociale del Leoncavallo, che ha prodotto cultura e impegno. La volontà è di mantenere aperto un dialogo con chi ne ha portato avanti le attività”.
Intorno a via Watteau, ieri mattina, non c’erano barricate né fumogeni. Solo il silenzio di una storia che si chiude e le parole che tornano dal passato. Quelle di un giovane Salvini che difendeva “le idee e i bisogni” di chi animava il Leoncavallo. Oggi lo stesso leader sorride davanti a un cartello di “sgombero eseguito”.
È la parabola di un politico che ha fatto della mutazione continua la sua cifra, ma che stavolta si scontra con l’evidenza: le sue frasi di trent’anni fa, scolpite nei verbali del Consiglio comunale, raccontano un Salvini agli antipodi di quello che oggi festeggia gridando “afuera!”.