Doveva essere una cena popolare. È diventata una battaglia ideologica a colpi di mestolo. A Omegna, riva piemontese del Lago d’Orta, la tradizionale “pastasciutta antifascista” organizzata in occasione del 25 luglio – anniversario della caduta del regime mussoliniano – ha scatenato l’opposizione della destra locale. A guidarla è Luigi Songa, ex Fratelli d’Italia e oggi cuciniere polemico: non contesta con un comizio, ma con un piatto. Risotto al nero di seppia. “Chi vuole assaggiarlo, venga a casa mia”, scrive. E la provocazione, nemmeno troppo velata, si serve calda.

La miccia? L’inserimento dell’evento antifascista nel calendario delle attività turistiche del Comune. Una scelta che, secondo Songa, avrebbe “poco a che vedere con la promozione del territorio” e molto con “una visione politicizzata della cultura”. Detto fatto, sui social partono i meme: chi rilancia con le tagliatelle liberali, chi con i tortellini sovranisti, chi invoca direttamente le lasagne identitarie. Ma il vero colpo di scena resta il “risotto nero anticomunista”. Che però, detto fra noi, sembra più un’esca mediatica che una ricetta.

Perché, volenti o nolenti, la pastasciutta antifascista ha una storia. Quella cucinata dai fratelli Cervi il 25 luglio 1943, a Campegine, per festeggiare la fine del fascismo. Maccheroni in bianco, burro e formaggio, distribuiti a chiunque passasse. Un gesto semplice, che è diventato simbolo. E che oggi si replica in oltre 300 piazze italiane. Il cuore resta Casa Cervi, ma ogni anno le “pastasciuttate” si moltiplicano, e non tutte vengono nemmeno censite.

Ma evidentemente non a tutti va giù. Lo ha scritto anche il deputato di FdI Alessandro Urzì, infuriato per un’iniziativa simile in Trentino: “Ti aspetti boschi e malghe, e invece ti servono la pastasciutta antifascista. Anche in vacanza. È un’ossessione!”. Parole che non hanno spento il fuoco, anzi: tra multe per occupazione di suolo (come accaduto in Veneto) e patrocini ritirati (come nel Cuneese), la pasta antifascista è diventata un vero spartiacque. Politico, culturale, perfino gastronomico.

Songa, dal canto suo, prova a raffreddare la pentola con una dose di sarcasmo: “Io la pastasciutta la mangio volentieri. Basta che sia rossa. Pomodoro, basilico, magari un po’ di bianco sopra: facciamo il tricolore”. E poi affonda il cucchiaio: “Ho letto che l’ultima cena di Mussolini fu un piatto di pasta in bianco? Allora magari gliela cucino io il 28 aprile prossimo”. Ironia? Sfottò? Provocazione condita al punto giusto? Di certo non è diplomazia.

Ma al di là del folclore da destra gastronomica, il punto resta: c’è chi la Resistenza la celebra e chi la digerisce male. Perché nel 2025 ancora si discute se ricordare la fine del fascismo sia un atto dovuto o un atto divisivo. Perché c’è chi la chiama ideologia e chi, più semplicemente, memoria. E intanto, tra una padellata di indignazione e una manciata di tweet, rispunta anche l’eco delle parole della premier Meloni in versione Papeete: “Mi danno della fascista? Allora viva il fascismo!”. Una battuta, certo. Ma che torna in mente quando si tenta di mettere sullo stesso piano la Resistenza e la nostalgia.

Il sindaco di Omegna, intanto, ha fatto sapere che lui alla pastasciutta antifascista ci sarà. “Non è solo una cena. È un modo per ricordare chi ha lottato perché oggi si potesse discutere, anche di risotto nero. È la nostra identità democratica. E se questo divide, il problema non è nel piatto”.

Così, mentre l’Italia affetta la propria coscienza storica a strati di pancetta e Parmigiano, una cosa è certa: la memoria non è mai digeribile per tutti allo stesso modo. Ma se proprio dobbiamo scegliere un piatto che racconti da che parte stiamo, beh, viva i maccheroni. E abbasso il revisionismo da friggitrice d’opinioni.