C’è un dolore che non fa rumore. Non sanguina. Non grida. Non marcia. Non occupa le prime pagine, né i talk-show. È il dolore opaco, quotidiano, lento, di chi si sveglia ogni mattina con una diagnosi in tasca e una lista d’attesa in mano. È la malattia che diventa condizione sociale. È la salute che si arrende alla burocrazia, al mercato, alla solitudine.

L’Italia è diventata il Paese che rinuncia a guarire. Quattro milioni e mezzo di persone. Non sono numeri, sono vite. Madri che aspettano un esame che non arriverà mai. Anziani che smettono di curarsi perché l’autobus non passa più. Uomini e donne che hanno imparato a sopportare la malattia come si sopporta il caldo d’agosto: in silenzio, col sudore che scende e il fiato che stringe. Rinunciano. Rinunciano a vivere bene, che poi è il modo più silenzioso di cominciare a morire.

Nel 2024, il 7,6% della popolazione ha detto no alle cure, e nel 2025 la situazione sembra addirittura peggiorare. Non per scelta, ma per necessità. Perché non c’erano soldi, perché non c’era tempo, perché non c’era nessuno a rispondere al telefono del CUP. È un’Italia che sta male e si sente in colpa anche per questo. Che ha imparato a dire “tornerò quando peggiora”. Un’Italia che ha dimenticato il diritto alla salute e si è adattata all’elemosina del possibile.

Lo ha raccontato con dolore e lucidità qualche tempo fa anche Francesca Mannocchi, giornalista e malata di sclerosi multipla. «Le liste d’attesa», ha scritto, «non sono numeri. Sono sentenze». E ogni giorno in più in attesa è un giorno in meno di vita, un giorno in più di paura. Ma c’è un disegno. Non è un complotto, è una strategia.

Un disegno cominciato in sordina decenni fa, e che oggi si fa sempre più evidente: demolire la sanità pubblica per favorire quella privata. Ridurre le risorse, allungare le attese, scoraggiare le cure, per costringere sempre più persone a rivolgersi a cliniche, studi privati, assicurazioni. È un’economia della malattia, dove chi soffre è mercato, e la salute è un prodotto da acquistare. E chi non può, si arrangi.

E i dati lo confermano: nel 2022, la speranza di vita alla nascita nel Mezzogiorno era di 81,7 anni, circa un anno e mezzo in meno rispetto al Nord-Est. Le province con l'aspettativa di vita più bassa? Napoli e Siracusa. Quelle più alte? Treviso, Trento, Bolzano. Come se nascere a sud significasse, biologicamente, vivere meno. Un destino scritto nella carta d’identità.

Nel 2021, le risorse pro capite per la sanità erano in media oltre 800 euro più alte in Friuli-Venezia Giulia rispetto alla Calabria. Campania, Basilicata, Puglia e Sicilia seguono a ruota. E non per caso: fino al 2023, i fondi per la sanità venivano distribuiti in base alla dimensione e all’età della popolazione. Apparentemente logico. In realtà, un paradosso crudele: dove si vive meno, si riceve meno. È come dire a chi muore prima che non vale abbastanza.

A peggiorare tutto, c’è l’autonomia differenziata: un modello che permette alle Regioni più forti di gestire settori strategici come la formazione medica, le politiche tariffarie, i fondi sanitari integrativi. In un Paese già spaccato, diventa la pietra tombale dell’uguaglianza. Oggi, cinque Regioni del Sud su otto risultano inadempienti nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). E la forbice si allarga. In silenzio.

Il risultato? La migrazione sanitaria. Nel 2022, il 44% dei pazienti che si sono spostati per curarsi proveniva dal Sud. Non sono viaggi della speranza: sono fughe. Fughe dal vuoto, dall’inefficienza, dall’abbandono. È la cartina geografica della disuguaglianza, dove la salute si misura in chilometri, e i chilometri si pagano con la fatica e con la pelle.

La sanità pubblica viene logorata come si logora una parete: un taglio di bilancio alla volta, un reparto che chiude, un pronto soccorso che scoppia. Intanto, il privato cresce. Le assicurazioni sanitarie – un tempo rare, oggi quasi indispensabili – aumentano i profitti e la presa sulla vita delle persone. Oggi, senza una polizza, curarsi bene è diventato un lusso.

È questo il nuovo volto della disuguaglianza: non si misura più soltanto con il reddito, ma con la possibilità di accedere a una terapia. Si è poveri anche quando si è malati e non si ha voce. Un esame urgente può costare quanto una mensilità. Una visita specialistica, se pagata privatamente, arriva prima di un referto del pronto soccorso. E mentre si aspetta, si peggiora. Lo Stato risparmia oggi e paga domani. Ma domani, forse, non ci sarà.

In Sardegna, in Calabria, in Abruzzo, si rinuncia a curarsi più che altrove. Non per superstizione, ma per geografia. Perché il diritto alla salute, in Italia, è un fatto di coordinate. In centro città, resistono le strutture. In periferia, si aspetta. In provincia, si rinuncia. Lo Stato – quello che dovrebbe esserci per tutti – lascia indietro proprio i più deboli.

Rinunciare alle cure significa molto più che trascurare il proprio corpo. Significa perdere fiducia. In sé stessi, negli altri, nelle istituzioni. Significa accettare che il dolore non è più una malattia, ma una condizione di classe. Le malattie diventano destino. Il diabete è un fardello dei poveri. L’ipertensione è il marchio di chi lavora troppo e dorme poco. Le patologie cardiovascolari si concentrano tra chi mangia male, vive male, si cura peggio. Il dolore si eredita, come una casa vecchia o un debito. È l’ereditarietà sociale del male.

E non finisce lì. Perché quando un genitore non si cura, chi lo assiste paga il prezzo emotivo ed economico della rinuncia. I caregiver, li chiamano. Sono figli, figlie, compagn   i, sorelle. Sono la stampella dello Stato. Quelli che rinunciano a lavorare per accompagnare un padre a fare una visita a 300 chilometri. Quelli che si indebitano per un farmaco, per una terapia, per una speranza. La salute non è solo una questione sanitaria. È politica. È civile. È culturale. Una nazione che consente – anzi, organizza – la rinuncia alla cura, è una nazione che ha deciso di smettere di essere comunità.

Ci siamo abituati a parlare di “emergenza sanitaria” solo quando arriva una pandemia. Ma l’emergenza vera è questa: il diritto alla salute è diventato un privilegio da meritarsi, un lusso da pagare, un caso fortunato. E allora mi domando: dov’è l' indignazione? Dov’è la coscienza politica di fronte a questa ingiustizia strutturale? Dov’è il grido della sinistra, che nacque proprio per garantire il diritto alla vita, alla salute, alla dignità di chi non aveva voce? Dov’è la destra, che dice di difendere il popolo ma poi lo abbandona nelle sale d’attesa?

Non ci sarà futuro – né economico, né umano – se non si ricomincia da qui. Dalla salute come bene comune. Dalla sanità pubblica come investimento, non come spesa. Dall’idea che guarire non debba dipendere da quanto puoi spendere, da quanto puoi aspettare, da quanto sei fortunato. Guarire un Paese non è una metafora. È un dovere. E chi governa, chi amministra, chi scrive, chi racconta – deve scegliere da che parte stare: con chi rinuncia o con chi pretende. Con chi subisce o con chi lotta. Perché in fondo è questo che ci resta da fare: non rinunciare più a pretendere di essere curati. Di essere ascoltati. Di essere umani.