Quando Benjamina Karić parla dell’assedio di Sarajevo si percepisce ancora la vibrazione di un trauma collettivo che non si è mai davvero estinto. Aveva appena un anno quando i cecchini iniziarono a colpire dalle colline, ma l’infanzia trascorsa tra rifugi improvvisati, blackout e sirene è diventata parte del suo modo di guardare il mondo. Forse anche per questo, quando nel 2022 è emersa la rivelazione più feroce e surreale del dopoguerra bosniaco — il cosiddetto “Safari umano”, stranieri disposti a pagare per sparare sui civili durante l’assedio — lei, allora sindaca di Sarajevo, non ha esitato un istante. «Ho sentito l’obbligo istituzionale ma soprattutto morale e umano di reagire», racconta oggi. «Per questo ho presentato una denuncia penale contro ignoti per l’uccisione dei miei concittadini».

È stato un gesto che ha riportato al centro della discussione internazionale uno degli aspetti più oscuri della guerra nei Balcani: l’idea che, mentre Sarajevo cercava di sopravvivere all’inverno, alla fame e alle granate, uomini ricchi e benestanti vi si recassero come in un parco divertimenti macabro, per acquistare la possibilità di uccidere di propria mano. Un’accusa devastante, rilanciata dal documentario “Sarajevo Safari” del regista sloveno Miran Zupanic. E oggi, quando la giustizia italiana indaga su presunti cittadini coinvolti, la voce di Karić torna a farsi sentire più forte.

La sua biografia racconta molto della complessità della città che ha amministrato. Trentaquattro anni, padre musulmano e madre serba, cresciuta in una famiglia legata alla tradizione partigiana, due lauree e un dottorato di ricerca, è considerata una delle figure emergenti della sinistra bosniaca. Dal 2021 al 2024 è stata sindaca della capitale, poi amministratrice di Novo Sarajevo. «Ho sentito parlare per la prima volta del caso nel 2022, quando è uscito il documentario. Ero sindaca, sapevo che non potevo restare in silenzio».

Karić ha voluto capire subito se quel racconto fosse solo una leggenda nera o se esistessero testimoni in grado di confermare. «Ho incontrato persone sopravvissute agli attacchi dei cecchini, vittime e testimoni di quei crimini orribili», spiega.

«Come sindaco, come avvocato, ma soprattutto come figlia di Sarajevo, che avrebbe potuto facilmente essere una delle vittime, sapevo di dover agire concretamente». La denuncia alla procura della Bosnia-Erzegovina è stata il primo passo. Il secondo è arrivato nel 2025, quando ha inviato una nuova segnalazione alla procura di Milano, che oggi conduce un’inchiesta sull’eventuale presenza di cittadini italiani in quelle spedizioni di morte.

A chi le chiede se abbia informazioni sulle identità o sul profilo sociale dei presunti cecchini stranieri, Karić risponde con prudenza, ma senza smorzare l’accusa morale. «Non conosco molto di chi pagava per uccidere i cittadini di Sarajevo. Ma quello che mi è chiaro è che si tratta di persone ricche e influenti, membri dell’élite sociale, per le quali la caccia, il loro hobby, ha assunto una dimensione mostruosa e disumana». Una frase che pesa come una pietra e restituisce la dinamica del potere in tempo di guerra: chi poteva permetterselo trasformava l’assedio in una sfida personale, comprando un posto sulle colline per provare l’arma, scrutare una strada e scegliere un bersaglio. Il contrario stesso di ogni idea di conflitto regolato: un gioco privato, sporco, privo di ogni logica militare.

Oggi che l’inchiesta milanese sta entrando nel vivo, l’ex sindaca continua a seguire ogni sviluppo.

«Ora lascio che siano i procuratori di Milano e Sarajevo a svolgere il loro lavoro», afferma. «Mi sono messa a disposizione del procuratore di Milano e sono pronta a collaborare come testimone». Non è solo un gesto formale: in queste settimane ha inviato una nuova richiesta ufficiale alla procura bosniaca per avere aggiornamenti sullo stato del procedimento. Per lei, che quel conflitto lo ha respirato fin da bambina, restare ferma non è un’opzione.

«Ciò che nel 2022 sembrava così lontano oggi è trattato e sollevato dai media di tutto il mondo», aggiunge. «C’è un’intera squadra di persone, instancabili, che sta lottando affinché la denuncia non rimanga lettera morta. Non ci arrendiamo. I nostri bambini, dopo così tanti anni, meritano giustizia».

Il suo tono non è mai vendicativo. È piuttosto la voce di una generazione che non ha vissuto la guerra come scelta, ma come condanna. E che oggi vuole, almeno, che i crimini più inconfessabili vengano raccontati, riconosciuti e giudicati. Perché nella Sarajevo che tenta di ricostruire un futuro multiculturale, l’idea che qualcuno abbia trasformato il terrore in un passatempo resta una ferita aperta. E chi l’ha vista da vicino non può accettare che venga dimenticata.