Altro che amore eterno. L’idillio tra Donald Trump e Elon Musk è finito come una start-up del metaverso: con un tweet velenoso e una minaccia d’espulsione. «Elon è arrabbiato perché ha perso i sussidi per le auto elettriche, ma se continua così rischia di perdere molto di più», ha dichiarato The Donald. E quando lui parla di “molto di più” non intende i follower, ma direttamente il permesso di soggiorno. In soldoni: o la smetti di criticare il mio “Big Beautiful Bill”, oppure ti rimando in Sudafrica con il primo SpaceX cargo disponibile.

Certo, a voler essere pignoli, l’idea di Trump di deportare un cittadino americano naturalizzato con passaporto in regola fa un po’ acqua. Ma chi siamo noi per ricordargli i dettagli? Lui intanto se la gioca come un reality show di terza stagione: litigi, accuse incrociate, tradimenti, e la frase minacciosa sparata in faccia alla telecamera mentre sale sull’aereo per la Florida. “Il Doge è il mostro che potrebbe rivoltarsi contro di lui e mangiarlo. Non sarebbe terribile?”. No Donald, sarebbe esilarante. Ma prego, continua.

L’origine dello scontro è, come spesso accade tra maschi alfa sopra i 70 e i 50 miliardi, una legge di bilancio. Il “Big Beautiful Bill” di Trump è una finanziaria talmente gonfia da far impallidire anche la pancia di Jabba the Hutt: 4.500 miliardi di dollari in agevolazioni, finanziamenti, sgravi, ma senza tagli a compensazione. Tradotto: 3.300 miliardi di deficit aggiuntivo. A Elon, tutto questo, non va giù. Perché? Perché i tagli ai sussidi per le auto elettriche sono lì, neri su bianco. E non è che uno può costruire Tesla sulla base degli incentivi pubblici e poi guardare The Donald che gli spegne la presa di corrente.

E così Musk ha acceso i motori e ha lanciato il missile: «È una legge clientelare. Distruggerà il Paese». Parole che, nel lessico trumpiano, equivalgono a un atto di guerra. Il tycoon non ha perso tempo: prima lo ha attaccato su Truth Social, poi lo ha accusato di essere un ingrato e ora minaccia di coinvolgere il famigerato “Doge”, quell’agenzia pubblica per l’efficienza dello Stato che lui stesso aveva affidato a Musk, con l’aria di chi dice: “L’ho creato io, ora può mangiarti”.

Il Doge, tra l’altro, doveva essere l’arma segreta di Trump contro gli sprechi. Ora rischia di diventare un comitato etico per la vendetta personale, con Elon come bersaglio numero uno. Ma d’altronde, si sa, chi di Doge ferisce…

Musk, dal canto suo, sta valutando se fondare un partito tutto suo. «È arrivato il momento di creare una forza che si occupi della gente», ha detto. Sottinteso: anche dei miliardari come me. Nel frattempo ha anche lasciato intendere che il nome potrebbe essere qualcosa come “X Party” o, se proprio vogliamo restare fedeli al gergo digitale, “404 GOP Not Found”.

Trump non ci sta. E, come da copione, la risposta non è stata una riflessione articolata sul bilanciamento fiscale, ma la minaccia esplicita: «Senza i sussidi Elon potrebbe chiudere bottega e tornarsene in Sudafrica». Poi, a un giornalista che gli chiedeva se davvero intendesse deportarlo, ha risposto con un sorriso: «Darò un’occhiata». Il tutto mentre saliva sulla scaletta dell’Air Force One con la stessa leggerezza di chi sta per girare il pilot di un nuovo reality show: Deportation Wars – Billionaire Edition.

E dire che un tempo erano i migliori amici del capitalismo. L’uno portava i missili, l’altro le promesse. L’uno creava auto a impatto zero, l’altro le finanze a impatto catastrofico. Ma oggi, la bro-love è finita. E mentre uno minaccia il rimpatrio e l’altro prepara una guerra politica stile Iron Man contro Thanos, noi possiamo solo sederci e godercela.

Perché se Trump è il profumo della vittoria, Musk è l’aroma del rancore. E insieme, spruzzano l’America di un’irresistibile fragranza: Ego, con retrogusto di vendetta.