I raid su Fordow, Natanz e Isfahan segnano un punto di non ritorno. L’Iran risponde, Israele esulta. Ora siamo dentro a una guerra vera, in un equilibrio globale che pende ogni ora verso l’abisso.
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E così, alla fine, è successo davvero. Gli Stati Uniti sono entrati in guerra. Non simbolicamente, non per interposta persona, non con dichiarazioni bellicose o sanzioni mirate: con missili veri. Hanno colpito tre siti nucleari strategici in Iran — Fordow, Natanz, Isfahan — facendo crollare l’ultima illusione rimasta: che l’America di Donald Trump, nonostante tutto, non avrebbe mai iniziato un conflitto diretto durante il suo mandato. Era la sua carta migliore, l’argomento preferito dei suoi sostenitori, la foglia di fico dietro
cui celare ogni altra follia diplomatica.
Ma adesso è caduta anche quella. I fatti sono chiari: nella notte, un attacco aereo congiunto tra Israele e Stati Uniti ha distrutto parte significativa delle infrastrutture del programma nucleare iraniano. Il Regno Unito è stato informato preventivamente — ma non ha partecipato. L’Oman, mediatore nei negoziati atomici, ha espresso una condanna durissima. Arabia Saudita e Iraq parlano apertamente di “minaccia alla pace regionale”. Ma a Washington, si brinda. E a Tel Aviv, si esulta.
Trump viene celebrato come eroe dai ministri israeliani, lodato per la sua “decisione storica”, ringraziato “a nome del popolo ebraico”. Ma in mezzo a tanta gratitudine, resta una verità incandescente: gli Stati Uniti hanno attaccato per primi, nel cuore di un contesto già fragile, facendo esplodere ogni barlume di de-escalation.
L’Iran, dal canto suo, non resta in silenzio. Ha risposto subito lanciando decine di missili verso Israele, causando feriti e danni gravi a Tel Aviv, Haifa e altre città. Ha usato per la prima volta il missile balistico Kheibar, capace di colpire a 2000 chilometri di distanza. Le Guardie rivoluzionarie annunciano apertamente l’intenzione di colpire “centri di comando e infrastrutture strategiche israeliane”, e promettono che le basi americane in Medio Oriente “saranno ridotte in cenere”.
Nel frattempo, a Vienna, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica convoca una riunione di emergenza per valutare l’impatto degli attacchi sulla sicurezza nucleare. Non risultano, al momento, aumenti di radiazioni nei siti colpiti, ma l’allarme è altissimo. L’Iran accusa apertamente l’AIEA di “complicità” e annuncia che il suo programma nucleare “non si fermerà”. Anzi, si radicalizzerà. Perché chi si sente aggredito smette di ragionare: reagisce.
A Roma, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni segue la crisi con riunioni straordinarie tra ministri e intelligence. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ammette che l’attacco “ci ha colto di sorpresa” e “cambia completamente lo scenario”. E già: lo cambia eccome. Perché ora siamo dentro a una guerra vera, in un equilibrio globale che pende ogni ora verso l’abisso. Il mondo si risveglia ogni mattina con un nuovo fronte aperto, ma questa volta siamo a un passo dall’irreparabile.
Israele, da parte sua, si dice pronta a un possibile ingresso di Hezbollah nel conflitto. I suoi caccia continuano a bombardare l’Iran occidentale. L’esercito ha già distrutto — a suo dire — le piattaforme da cui Teheran ha lanciato i missili. Ma la sensazione è che siamo solo all’inizio. Gli Houthi in Yemen parlano apertamente di ritorsioni. I Pasdaran minacciano apertamente di “colpire ovunque nel mondo”. E Hezbollah, silente per ora, accumula munizioni e risentimento.
Gli Stati Uniti, per voce dei funzionari della Casa Bianca, si preparano a possibili ritorsioni: basi all’estero sotto sorveglianza, allerta massima in tutto il Medio Oriente. L’Iran ha chiesto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU una riunione di emergenza. Il suo ministro degli Esteri, Araghchi, parla di “conseguenze irreversibili”. Il linguaggio usato è quello della guerra, non della diplomazia.
Nel pieno di tutto questo, Trump si ritrova nuovamente al centro del caos, non come spettatore ma come protagonista. Ha infranto la promessa che lo differenziava da tutti gli altri presidenti recenti: quella di non trascinare l’America in un nuovo conflitto armato. Adesso, invece, la guerra è qui. È reale. E ha già lasciato una scia di sangue.
Per i suoi alleati, Trump è un salvatore. Per i critici, un incendiario. Per il mondo, una mina vagante. Quel che è certo è che il suo intervento ha sradicato ogni possibilità di mediazione. Ha consegnato all’Iran un alibi perfetto per rispondere con ogni mezzo. E ha dimostrato, ancora una volta, che anche le promesse più sbandierate possono saltare in aria insieme ai bunker di un paese straniero.
Un missile ha colpito il centro di Tel Aviv, distruggendo palazzine e lasciando ventisette feriti sotto le macerie. Due altri missili sono piombati su Haifa. La tensione è ovunque. Le ambasciate occidentali evacuano personale. Le borse crollano. E in mezzo a questo disastro, la narrativa di Trump come
“presidente della pace” fa ridere amaro.
La speranza che questo conflitto non si allarghi a tutta la regione si fa ogni ora più tenue. Hezbollah, gli Houthi, le milizie sciite irachene: tutti osservano, pronti a muoversi. Le prossime 48 ore saranno decisive. Ma il danno ormai è fatto. E la pace, se mai c’è stata, è sepolta sotto le macerie di Tel Aviv e i silos sventrati di Natanz. E a rimanere in piedi, per ora, c’è solo una domanda: quanto ci vorrà prima che l’incendio divampi oltre ogni controllo?